Non sussiste una presunzione assoluta di corrispondenza tra quanto risulta dalla busta paga e il pagamento effettivamente percepito dal lavoratore

Aveva intimato al datore di lavoro il pagamento di una cifra superiore a 20 mila euro per retribuzioni relative al periodo gennaio 2003/giugno 2004 e trattamento di fine rapporto.

In sede di merito sia il Tribunale che la Corte di appello avevano respinto la opposizione del datore. Il Giudice di secondo grado, in particolare, aveva accertato che la sottoscrizione apposta dal lavoratore in calce alle buste paga non avesse valore di quietanza. Essa attestava solamente la ricezione delle stesse. Pertanto, era onere del datore di lavoro, che non vi aveva adempiuto, dimostrare la effettiva erogazione delle somme ivi riepilogate.

Nell’impugnare la decisione davanti alla Suprema Corte di Cassazione, il ricorrente eccepiva l’onere per il lavoratore di dimostrare il fondamento del proprio credito. Depositando in giudizio le buste paga, egli riteneva di aver assolto all’onere probatorio che su di lui incombeva. Sarebbe spettato dunque al lavoratore provare che le somme a lui erogate non corrispondevano a quelle riportate nelle buste paga depositate.

La Cassazione, con la sentenza n. 28029/2018, ha ritenuto che la censura, per taluni aspetti inammissibile, fosse comunque infondata.

Nel richiamarsi alla giurisprudenza di legittimità i Giudici Ermellini hanno ribadito che le buste paga, ancorché sottoscritte dal lavoratore con la formula “per ricevuta”, costituiscono prova solo della loro avvenuta consegna. Non provano, invece, l’effettivo pagamento.

Non sussiste, infatti, una presunzione assoluta di corrispondenza tra quanto da esse risulta e la retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore. Spetta al datore di lavoro, quindi, l’onere di provare l’avvenuto pagamento. Da qui il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

 

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