Non è indennizzabile l’incidente occorso al lavoratore che nel viaggio in itinere verso il luogo di lavoro abbia “arbitrariamente” deciso di seguire un percorso diverso da quella suggerito dall’azienda

Nel 2016 la Corte d’Appello di Bari aveva riformato la sentenza del giudice di primo grado che, in prima istanza, aveva accolto la domanda proposta da un lavoratore, dipendente dell’INAIL, nei confronti dell’azienda per il pagamento delle prestazioni derivanti dall’infortunio in itinere subito nel 2005 lungo il percorso quotidianamente effettuato per recarsi dalla propria abitazione sul luogo di lavoro.

Secondo i giudici della Corte territoriale l’infortunio occorso al ricorrente non era indennizzabile perché verificatosi al di fuori del normale tragitto casa-lavoro.

In altre parole, ai sensi dell’articolo 12 decreto legislativo n. 38/2000 è indennizzabile l’infortunio occorso durante il «normale» percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate; ove per normale percorso si intende quello più breve e diretto nonché delimitato entro un ragionevole arco temporale.

Ebbene, da quanto emerso in giudizio, risultava chiaro che il percorso effettuato il giorno dell’incidente, non era certo il più breve: “dalla comparazione tra il tragitto seguito e quello indicato dall’INAIL risultava che quest’ultimo avrebbe comportato un risparmio in termini di tempo pari a 12 minuti e di distanza tra l’abitazione e la sede lavorativa di 11 chilometri. Il rischio di tornanti – (che interessava un tratto di due soli chilometri del percorso più breve ed, alla stregua della documentazione fotografica, non risultava particolarmente allarmante) – non era tale da giustificare il diverso tragitto percorso, in assenza di indicazioni più specifiche (ad esempio, circa il tasso di incidenti in quel tratto o la natura della strada)”.

Ebbene, era emerso che il dipendente, il giorno del sinistro avesse effettuato irragionevolmente una deviazione per raggiungere la destinazione.

La deviazione non era dipesa da una causa di forza maggiore, da esigenze improrogabili o dall’attuazione di una direttiva del datore di lavoro.

Vi era, dunque, un’ipotesi di rischio elettivo causato dal lavoratore per scelte personali tali da interrompere il nesso di causalità tra il lavoro e l’evento subito.

Il ricorso per Cassazione

Ma secondo il lavoratore il ragionamento della Corte territoriale – secondo cui il percorso più breve e diretto era quello indicato dall’ INAIL – era fuorviante ed illogico.

La scelta del percorso alternativo non era stata per nulla arbitraria né ingiustificata: egli aveva preferito una strada più agevole e priva di tornanti, il che comportava un aggravio di tempo di poco più di dieci minuti.

E, trattandosi di una minima differenza con i percorsi alternativi non si poteva ritenere un aumento del rischio né una deviazione animata da finalità personali; più semplicemente, il percorso era stato scelto perché ritenuto più congeniale per distanza, tempo e traffico del momento.

Ora, le argomentazioni addotte dal ricorrente sebbene astrattamente coerenti, per i giudici della Cassazione non sono ammissibili.

Ed infatti il ricorrente, pur articolando il ricorso in termini di violazione dell’articolo 360 nr. 5 cod.proc.civ., non aveva allegato alcun fatto storico non esaminato nella sentenza impugnata ma si era limitato a contestare la decisione assunta, contrapponendo al giudizio espresso dalla corte d’appello, in ordine alla sussistenza di una ipotesi di rischio elettivo, una diversa valutazione delle ragioni della deviazione dal percorso normale e della loro apprezzabilità e rilevanza; in tal modo sollecitando ai giudici di legittimità un non-consentito riesame del merito.

Per tali ragioni il ricorso del dipendente è stato respinto.

La redazione giuridica

 

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