Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha fornito specifiche in merito alla possibilità di equiparare lo studio legale a privata dimora

Può uno studio legale essere di fatto equiparato a privata dimora?

Secondo la sentenza n. 5797/2018 della Corte di Cassazione, che in merito ha fornito delle precisazioni importanti, sì.

Lo studio legale è, infatti, equiparabile a luogo di privata dimora, non essendo aperto indiscriminatamente al pubblico.

Pertanto, possono configurarsi reati quali quelli di violazione di domicilio e di violenza privata.

E ciò anche nell’ipotesi in cui l’agente si intrattenga, con minacce e atteggiamenti intimidatori all’interno del suddetto studio legale.

Questo il parere della quinta sezione penale della Cassazione che, nel caso di specie, si è pronunciata sul ricorso di un avvocato.

Questi è stato condannato per i reati, uniti dal vincolo della continuazione, di violazione di domicilio e violenza privata.

L’uomo, infatti si era intrattenuto all’interno dello studio legale di una collega contro la sua espressa volontà.

Qui, aveva tentato di costringerla a ricevere una missiva e ad apporvi la sua firma per ricevuta, minacciando di non andar via sino all’avvenuto adempimento.

L’uomo non è però riuscito nel proprio intento per cause indipendenti dalla sua volontà.

Il giudice a quo, infatti, riteneva fondata l’affermazione di responsabilità dell’imputato, sussistendo i presupposti di entrambi i reati contestati.

Ciò in considerazione dell’inclusione dello studio legale nella nozione di domicilio e della riconducibilità al delitto di violenza privata degli atti posti in essere al fine di coartare la volontà della parte lesa.

Nonostante infatti la Cassazione annulli la sentenza impugnata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione, i giudici si sono comunque pronunciati nel merito della vicenda.

In particolare, rispetto alla configurabilità o meno della violazione di domicilio e del tentativo di violenza privata. Soprattutto se si considerano gli elementi oggettivi e soggettivi delle fattispecie criminose.

Secondo la difesa, infatti, non vi sarebbe stato in capo al titolare un legittimo “ius excludendi”.

Questo è indispensabile per la ravvisabilità della violazione dell’art. 614 c.p., posto che l’imputato doveva ritirare dei documenti consortili e il luogo in questione era, per l’appunto, un ufficio dell’amministrazione del consorzio.

Su tale punto, ha precisato il Collegio, va considerato l’orientamento giurisprudenziale di legittimità.

Secondo quest’ultimo, lo studio professionale è equiparabile a una privata dimora, stante la mancata apertura indiscriminata al pubblico.

Pertanto, ne consegue la correttezza della motivazione svolta dai giudici di merito nel caso di specie.

Contestualmente, si evidenzia poi la congruità della motivazione sulla ricorrenza dei reati sopra indicati.

Ciò con particolare riferimento al lasso di tempo nel quale si protrasse l’azione dell’imputato e alle modalità di induzione poste in essere da quest’ultimo.

Ciononostante, la Cassazione ha stabilito come i reati di cui è causa si siano estinti per intervenuta prescrizione.

Pertanto, occorre procedere all’annullamento della sentenza impugnata.

 

 

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