La sentenza n. 8080 del 20 febbraio 2017 della Suprema Corte ha confermato quello che è un consolidato orientamento della giurisprudenza penale in base al quale in capo ad ogni professionista sussiste una responsabilità personale che esula dalla condotta dell’intera équipe.
Questi i fatti.
La Corte di Appello di Catania ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Catania  nei confronti di un infermiere e di un medico anestesista ed appellata dagli stessi nonché dal responsabile civile, ossia l’Azienda Ospedaliera.
Gli imputati sono stati ritenuti colpevoli secondo la corte di appello di Catania del reato di lesioni personali colpose e condannati alla pena di mesi 6 di reclusione ciascuno.
In particolare  è stato contestato agli imputati,  nella c.d. fase di risveglio post operatorio, di non aver adeguatamente vigilato il paziente al termine dell’operazione chirurgica cui lo stesso era stato sottoposto, così non avvedendosi che lo stesso  subiva un arresto respiratorio che causava un successivo arresto cardiocircolatorio con conseguenti lesioni gravissime derivate alla prolungata ipossia cerebrale con successivo stato di coma.
Avverso la sentenza di appello hanno proposta  ricorso per cassazione sia l’anestesista che l’infermiere nonché il responsabile civile Azienda Ospedaliera.
Secondo l’assunto dei ricorrenti successivamente all’intervento chirurgico, il paziente che si trovava nella fase di risveglio sempre all’interno della sala operatoria veniva prontamente assistito sia dall’anestesista che dall’infermiere, i quali, non soltanto praticavano le manovre previste in questi casi nell’attesa che il degente si svegliasse, ma venivano anche praticate quelle tecniche prescritte dalla buona pratica per assicurarsi che il paziente non fosse solo sveglio ma che avesse anche recuperato le funzioni vitali in modo completo, e cioè che si orientasse spazio-temporalmente.
A seguito di tanto il paziente veniva dimesso dall’area risveglio della sala operatoria e condotto in una sala attigua, nella quale  i pazienti attendevano di essere ricondotti in reparto.
Ebbene, per i ricorrenti è da quel momento che cessava la funzione di garanzia in capo a tutti e due gli imputati,  tant’è che l’infermiere veniva adibito ad altre funzioni.
La regola che si contesta ad entrambi gli imputati è “quella della vigilanza e della sorveglianza nei riguardi del paziente durante la fase post-operatoria”, per valutare la quale è necessario operare un riferimento alle “linee guida accreditate in campo medico e scientifico per la sicurezza dei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici” in particolar modo alle delimitazione delle posizioni di garanzia degli imputati.
Le linee guida hanno avuto la loro consacrazione normativa con la “Legge Balduzzi”, testo normativo che ha portato dottrina e giurisprudenza a produrre vivaci contributi.
Il Giudice di prime cure  non ha operato alcuna diversificazione tra l’operato dell’anestesista e quello dell’infermiere, entrambi tenuti alla sorveglianza del paziente fino alla completa ripresa dello stesso, ricostruzione però che  secondo i difensori dell’anestesista, non trova alcun fondamento nelle indicazioni contenute nelle linee guida.
Tanto si sarebbe risolto in un error in iudicando che ha viziato alla radice l’impostazione della decisione d’appello, in quanto, le linee guida ed i protocolli presenti nella struttura ospedaliera, segnavano una netta distinzione tra la “fase iniziale di risveglio” e la “fase successiva”.
Ed infatti, l’anestesista è  responsabile in prima persona della fase di risveglio, mentre nella seconda fase la responsabilità passa in capo al personale infermieristico, sotto la mera supervisione del medico anestesista.
Le linee guida sono contenute in due documenti, acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale, ossia, le raccomandazioni S.I.A.A.R.T.I. (Gruppo di Studio SIAARTI per la Sicurezza in Anestesia e Terapia Intensiva) per l’area di recupero e l’assistenza post-anestesiologica e il protocollo di sorveglianza post-anestesiologica in vigore al presidio ospedaliero in cui era ricoverato il paziente all’epoca dei fatti.
In base alle raccomandazioni S.I.A.A.R.T.I.  “il termine risveglio è in realtà improprio, in quanto riferito unicamente alla fase di ripresa della coscienza dopo un’anestesia generale”, mentre più adeguato appare il termine “recupero” che “comprende il ripristino della stabilità dei parametri vitali, dello stato di coscienza, ma anche dell’attività motoria, della sensibilità, ecc.” e “la responsabilità della sorveglianza clinica dei pazienti è affidata agli infermieri” e dove viene precisato che nel caso in cui non sia prevista la figura di un anestesista specificamente deputato alla zona risveglio, “l’infermiere farà riferimento all’anestesista di sala”.
Invece in base alle linee guida in vigore presso l’ospedale “la sorveglianza temporanea del paziente a seguito di intervento chirurgico in anestesia può essere effettuata, ad opera del personale medico ed infermieristico, all’interno della stessa sala operatoria o in un ambiente idoneo appositamente attrezzato” e “il medico anestesista è responsabile della fase iniziale di risveglio dall’anestesia”, alla quale “assisterà… in S.O. (sala operatoria) oppure nella sala di risveglio”, mentre “la sorveglianza e l’assistenza” post-operatoria del paziente, invece, “devono essere assicurate da infermieri professionali qualificati”.
Nella sentenza del Giudice territoriale si afferma come “sull’anestesista gravasse un obbligo di vigilanza sul paziente e di verifica della integrale ripresa e stabilizzazione di tutti i parametri vitali dello stesso nonché di direzione del personale infermieristico incaricato della attività di controllo sotto la supervisione dell’anestesista, attività che non sono state compiute dall’imputato anestesista, in violazione delle linee guida in materia, con la conseguenza che non può trovare applicazione nel caso in esame l’art. 3, comma 1. della  L. 189 del 2012 (il c.d. decreto Balduzzi) che presuppone da parte dell’esercente la professione sanitaria il rispetto delle linee guida”,
Nella sentenza della Corte d’appello si afferma che, in base alla pronuncia della Corte di Cassazione,  n. 16237 del 29 gennaio 2013, può parlarsi di “colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione”, inoltre “in tema di responsabilità per attività medico chirurgica, al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall’agente: a) la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, b) la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente; c) la motivazione della condotta; d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa” (sez. 4, n. 22405 dell’8.5.2015, Piccardo, Rv. 263736 e sez. 4, 21 ottobre 2015, n. 45437).
Ebbene, gli Ermellini, valutati gli elementi posti a suffragio delle tesi dei ricorrenti hanno affermato quanto segue:“Va ribadito che al giudice di legittimità è assegnato solo il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la c.d. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare (ex pluribus Cass, n. 43459 del 04/10/2012)”.
Le raccomandazioni S.I.A.A.R.T.I., delle quali hanno fatto largo uso i giudici di merito nelle  motivazioni, comprendono diverse definizioni tra cui, il paragrafo 3 (Definizioni e Obiettivi) nel quale è affermato, che “Il termine risveglio è in realtà improprio in quanto riferito unicamente alla fase di ripresa della coscienza dopo un’anestesia generale. Nei paesi di lingua inglese il termine utilizzato per identificare quest’area è Recovery Room, traducibile in area di recupero dall’anestesia. Il termine recupero comprende il ripristino della stabilità dei parametri vitali, dello stato di coscienza, ma anche della attività motoria, della sensibilità, ecc. e può quindi essere convenientemente esteso anche al controllo postoperatorio degli interventi condotti con tecniche loco-regionali”, mentre al paragrafo 6 (Risorse Umane) viene chiarito che “La responsabilità della sorveglianza clinica dei pazienti è affidata agli infermieri” e al paragrafo 7 (Fasi Cliniche) viene riferito che “La sorveglianza postoperatoria comprende la periodica valutazione dello stato di coscienza, delle funzioni respiratoria, cardiocircolatoria e neuro-muscolare, della temperatura, del dolore, della diuresi, dei drenaggi chirurgici oltre al trattamento di eventuali complicanze.., lo stato di coscienza e i riflessi protettivi devono essere valutati clinicamente con periodicità non superiore ai 15 minuti. Qualora insorga uno stato confusionale acuto il paziente deve essere attentamente valutato per escludere i potenziali fattori reversibili riconducibili ad una sofferenza cerebrale di tipo ipossico, metabolico o farmacologico. “Durante la fase di risveglio devono essere attentamente valutati la pervietà delle vie aeree, il pattern respiratorio (frequenza respiratoria ed escursione toracica) e la SpO2 con pulsiossimetro”.
Secondo la Cassazione, il Giudice dell’appello,  non ha tenuto in debito conto la distinzione esistente tra “fase di risveglio” e “fase di recupero”.
La prima fase infatti, è affidata  al medico che deve intervenire con le manovre tecniche necessarie a ripristinare le normali funzioni vitali, mentre la fase di recupero è affidata prioritariamente al personale infermieristico, tenuto a sorvegliare assiduamente il paziente per controllare l’evoluzione della situazione e sollecitare l’intervento del medico nel caso in cui si renda necessario.
Gli Ermellini hanno sottolineato che la Corte d’appello non ha effettuato alcun approfondimento sul punto limitandosi ad affermazioni generiche per ciò che attiene  l’obbligo di sorveglianza da parte del medico, ritenendo sussistente tale obbligo anche nella “fase di recupero” in modo del tutto identico e sovrapponibile rispetto a quello dell’infermiere e necessaria la presenza costante di entrambi gli operatori mentre sembra ragionevole ritenere che la sorveglianza possa  essere assicurata da uno solo dei due soggetti ed anzi principalmente dall’infermiere.
Per i su esposti motivi la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata relativamente alle doglianze del medico, rinviando alla Corte di Appello, per ciò che attiene il ricorso dell’infermiere, condannando alle spese di giudizio sia l’infermiere stesso che l’azienda ospedaliera.

Avv. Maria Teresa De Luca

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui