Bimbo muore per patologia cardiaca congenita, i genitori denunciano l’ospedale

0
patologia-cardiaca-congenita

Un bambino muore per una grave patologia cardiaca congenita, i genitori citano in giudizio l’Ospedale per non aver diagnosticato prima la disfunzione.

I fatti

Nel settembre 2002 il bambino veniva portato al pronto soccorso dell’Ospedale civico di Palermo, dove rimaneva per quattro giorni senza che i medici individuassero con esattezza la patologia della quale era affetto. Dapprima gli veniva diagnosticato un sospetto di meningoencefalite, il giorno successivo veniva riscontrata una tachicardia sinusale, ma non si procedeva ad alcun approfondimento strumentale. Il cardiologo si limitava ad annotare nella cartella l’opportunità di chiedere ai familiari se il paziente era portatore di anomalie cardiache. Il giorno successivo il bambino si aggravava, veniva trasferito al reparto di rianimazione pediatrica e lì moriva.

La vicenda giudiziaria

Nel 2011 i genitori del minore convenivano in giudizio l’ARNAS di Palermo. I due deducevano la responsabilità per la errata o omessa diagnosi della grave patologia cardiaca congenita di cui era risultato affetto il bambino, asseritamente eziologicamente determinante nella causazione del decesso del piccolo.

Quindi si procedeva al sequestro della cartella clinica e all’esame autoptico. I consulenti del PM accertavano che il decesso del minore era dipeso da arresto cardiorespiratorio in soggetto con cardiomiopatia ipertrofica. I genitori sottolineavano che la patologia non era mai stata diagnosticata né nel corso del ricovero del 2002 e neppure nel corso di un ricovero precedente, risalente al settembre 2000, presso la stessa struttura ospedaliera. In sede penale si escludeva la sussistenza di una responsabilità colposa dei sanitari per l’assenza di nesso di causalità, in termini di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tra l’omessa diagnosi e l’evento morte.

I giudizi civili

Il Tribunale di Palermo rigettava le domande risarcitorie formulate escludendo che fosse stata fornita la prova di un nesso di causalità tra il decesso del piccolo e la condotta dei sanitari della struttura ospedaliera.

Veniva proposto appello per la errata o omessa diagnosi da parte dei medici dell’Ospedale civico già in occasione del primo ricovero del bambino, nell’aprile 2000, e poi nel corso dei quattro giorni di ricovero che, nel settembre 2002, ne precedettero la morte, deducendo che l’omessa diagnosi potesse rilevare anche in termini di perdita di chance di sopravvivenza.

La Corte d’appello confermava il rigetto della domanda sulla scorta della CTU espletata in primo grado, la quale escludeva ogni responsabilità sanitaria in ragione del fatto che per le condizioni in cui versava il bambino l’evento morte non era evitabile. Escludeva parimenti che fosse configurabile una responsabilità della struttura sanitaria per omessa diagnosi in termini di perdita di chance.

Il ricorso in Cassazione

I genitori del bambino impugnano in Cassazione. Essi ritengono sussistente una grave carenza perché i Giudici di merito non avrebbero esaminato il determinismo nella causazione dell’evento consistente nel trattamento sanitario riservato al minore durante il precedente ricovero ospedaliero risalente all’aprile 2000. Sostengono che la Corte d’appello si sia limitata a ripercorrere l’iter logico giuridico seguito dal Giudice di prime cure, omettendo di approfondire il contenuto dei motivi di appello e delle censure in esse riportate, ovvero di verificare se i sanitari che ebbero in cura il minore, già nell’aprile del 2000, avessero fatto tutto ciò che secondo i protocolli scientifici dell’epoca fosse necessario per verificare se la patologia dello sfortunato bambino potesse essere riconducibile o meno a una disfunzione dell’apparato cardiocircolatorio.

I mancati esami diagnostici

Riferiscono che il bambino venne ricoverato per riferiti ripetuti episodi di vomito e che venne dimesso con una diagnosi di bronchite catarrale e dispepsia, senza che i medici diagnosticassero la presenza del grave disturbo cardiaco congenito. Aggiungono, sulla scorta delle osservazioni del loro consulente di parte, che era inspiegabile come il bambino non fosse stato sottoposto a un RX del torace o a un elettrocardiogramma che avrebbe potuto sollevare il sospetto di cardiopatia per arrivare a una diagnosi tempestiva che avrebbe modificato il percorso della malattia.
Ritengono inspiegabile che un paziente che lamenta degli episodi ripetuti di flogosi bronchiale non venga sottoposto a un RX del torace per avere certezza dello stato dell’apparato respiratorio. Aggiungono che il CTU non esaminava affatto quali accertamenti fossero stati effettuati durante il primo ricovero, pur a fronte dei rilievi dei ricorrenti.
Addebitano alla struttura sanitaria un deficit della dovuta attenzione nell’esaminare e approfondire le condizioni del bambino, evidenziando che un comportamento più diligente avrebbe consentito di far emergere, già nel 2000, l’esistenza della patologia cardiaca congenita.

In sintesi, secondo i genitori del piccolo, i Giudici di secondo grado si sarebbero limitati a riprodurre le conclusioni del CTU, così come avvenuto in primo grado, senza accorgersi che il Consulente aveva omesso di accertare se e in quale misura l’errato approccio diagnostico dei sanitari potesse dirsi eziologicamente connesso al decesso del minore, tenuto conto del primo ricovero avvenuto nell’aprile 2000.

Il ricorso è privo di autosufficienza

La Suprema Corte ritiene il ricorso privo di autosufficienza poiché non richiama i punti specifici delle asserite carenze della CTU. Ad ogni modo, le censure non vengono ritenute fondate (Cassazione Civile, sez. III, 22/04/2024, n.10817).

La sentenza della Corte di Appello, a differenza di quanto sostenuto dai genitori della piccola vittima, non è meramente riproduttiva degli esiti della consulenza tecnica ma compie una propria, autonoma ed esauriente valutazione. Infatti afferma che la patologia accertata con l’autopsia fosse molto grave, che si trattasse di una patologia difficilmente diagnosticabile, spesso asintomatica, come in questo caso, e che nulla sarebbe cambiato per il bambino anche se la diagnosi fosse stata più precoce, perché non c’era rimedio.

Laddove i Giudici di appello affermano, sulla base delle risultanze della CTU, “che una diagnosi precoce non avrebbe potuto impedire l’esito infausto”, la sentenza impugnata compie un accertamento in fatto, peraltro neppure criticato, e comunque idoneamente motivato e non sindacabile in Cassazione.

La Cassazione rigetta il ricorso.

Avv. Emanuela Foligno

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui