L’avvocato che sbaglia, ma senza causare danni al cliente, è tenuto a risarcirlo? Una interessante pronuncia della Corte di Cassazione fa chiarezza.

Cliente vs Avvocato: chi paga?

La Corte di Cassazione, Sez. III Civile, con l’ordinanza depositata il 21 giugno 2018, n. 16342, si è pronunciata su una fattispecie di responsabilità professionale da parte dell’avvocato.

La decisione in esame consente di fare alcune riflessioni sulla fattispecie costitutiva del risarcimento del danno e sul diritto al compenso dell’avvocato anche nel caso in cui nello svolgimento della sua attività abbia commesso un errore.

I fatti.

I clienti di un avvocato propongono un’azione di risarcimento dei danni rappresentando che l’avvocato non aveva riassunto tempestivamente il giudizio di merito che si era interrotto.
Secondo gli attori tale comportamento aveva causato la prescrizione del loro diritto al risarcimento del danno da sinistro stradale fatto valere nei confronti dell’assicurazione.

Il giudice di prime cure aveva accolto la domanda attorea, ma limitatamente alla minor somma corrispondente alla sola rivalutazione e interessi rimasta insoddisfatta dalla compagnia che, viceversa, aveva provveduto a versare il massimale assicurativo.

In quella sede il Tribunale aveva parzialmente accolto la domanda riconvenzionale dell’avvocato tesa ad ottenere il pagamento del proprio compenso professionale.

La sentenza di primo grado veniva riformata dalla Corte territoriale nella parte in cui aveva accolto la domanda risarcitoria poiché aveva rilevato che il danno non era stato specificamente dedotto e provato.

Per affermarsi la responsabilità serve aver causato un danno al cliente?

Ebbene, secondo gli Ermellini la soluzione alla quale è giunta la Corte d’Appello, nel decidere la controversia, è corretta.

Secondo i Supremi giudici la motivazione con la quale la domanda degli attori era stata respinta «appare del tutto congrua e completa, dimostrando di non aver trascurato il danno in concreto necessario per poter affermare una responsabilità».

L’inerzia del professionista.

Secondo la Corte di Cassazione anche nel caso in cui il professionista abbia fatto spirare il termine per provvedere alla riassunzione, da tanto non discende tout court una sua responsabilità cui consegua l’obbligo di risarcire il danno alla parte assistita.

Si legge, infatti, nella sentenza che «il fatto che il diritto a ulteriori somme si sia prescritto per inattività processuale determinatasi a causa dell’inerzia del professionista, non significa che l’azione intentata per farlo valere fosse fondata in tutti i suoi presupposti, essendo l’azione volta a far valere importi per rivalutazione e interessi oltre il massimale previsto nella polizza assicurativa, e interamente versato alla parte danneggiata».

Quando si configurano questi casi sottolineano gli Ermellini è necessario, in primis, che sia allegata e, di conseguenza, dimostrata, una responsabilità per mala gestio impropria della compagnia assicurativa «il cui fondamento non è stato neanche dedotto».

Qual è la fattispecie costitutiva nella responsabilità professionale?

Certamente nelle azioni di responsabilità è necessario allegare e provare non solo la condotta professionale che si assume negligente, ma anche il danno che ne è derivato come conseguenza della condotta.

Infatti, nell’azione civile di risarcimento del danno l’affermazione di responsabilità non può prescindere dall’accertamento della determinazione di un effettivo danno, e sul punto la Corte territoriale ha ragionato essenzialmente in termini di difetto di prova del danno, che costituisce un presupposto indefettibile dell’azione di responsabilità, il cui onere incombe su chi agisce.

Gli Ermellini precisano, pertanto, che nelle azioni di responsabilità viene attuata una doppia applicazione della regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”.

Ciò avviene una prima volta, quando si deve accertare il nesso di causa tra condotta ed evento di danno e, una seconda volta, tra l’evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili.
Non è invece possibile accertare tanto nel caso in cui la parte che agisce per far accertare la responsabilità professionale non alleghi neppure il presupposto secondo il quale la sua azione avrebbe potuto avere un esito diverso, ed a lei favorevole, senza l’errore dell’avvocato.

In caso di negligenza il professionista ha diritto al compenso?

Nel caso de quo gli attori contestano l’esistenza del diritto al compenso in virtù del comportamento negligente tenuto dal professionista e che, a loro dire, aveva causato loro un danno.
Molto ferma è stata la reazione della Suprema Corte sul punto, avendo la stessa respinto in modo deciso la tesi dei ricorrenti.

I ricorrenti si rifanno alla sentenza della stessa Corte di Cassazione, sezione III, numero 4781 del 26/2/2013, ma secondo gli Ermellini “L’assunto trascura, infatti, che l’errore professionale deve essere definitivo e fonte ultima del danno, cioè deve produrre la conseguenza di rendere del tutto inutile l’attività professionale pregressa in quanto finalizzata a tutelare il diritto fatto valere in giudizio dalla ricorrente e, quindi, pone il professionista in una condizione per cui la sua prestazione, che egli è stato chiamato a svolgere per l’assicurazione di detta tutela, si deve ritenere totalmente inadempiuta, perché non ha prodotto alcun effetto a favore del cliente e ciò sia dal punto di vista del risultato, se l’obbligazione dedotta nel contratto di prestazione di opera si considerasse di risultato per la non eccessiva difficoltà della vicenda nella quale si è concretato l’errore, sia dal punto di vista della prestazione del mezzo della propria prestazione d’opera, se la si considerasse come obbligazione di mezzi. Tale richiamo giurisprudenziale tuttavia risulta astratto perché non si confronta con la ratio della decisione, ove è chiarito come non sia stato provato che l’azione volta a ottenere una somma ulteriore per interessi e rivalutazione, oltre il massimale di polizza, e dichiarata prescritta per effetto della mancata riassunzione della controversia nei termini indicati, avesse potuto avere esito favorevole”.

La Corte sostiene che la prestazione di un avvocato si configura per lo più come un’obbligazione di mezzi e non di risultato, secondo una classica distinzione, ancora attuale, in materia di prestazione d’opera professionale. Questo principio di diritto, ravvisabile nell’art. 2237 cod. civ., pone a carico del cliente che recede dal contratto d’opera il compenso per l’opera svolta, indipendentemente dall’utilità che ne sia derivata, e può essere quindi derogato solo per espressa volontà dei contraenti, i quali possono subordinare il diritto del professionista al compenso alla realizzazione di un determinato risultato, con la conseguenza che il fatto oggettivo del mancato verificarsi dell’evento dedotto come oggetto della condizione sospensiva comporta l’esclusione del compenso stesso, salvo che il recesso ante tempus da parte del cliente sia stato causa del venir meno del risultato oggetto di tale condizione (cfr. Cass. Sez. II, Sentenza n. 14510 del 14/08/2012).

Gli Ermellini, sulla base di quanto sopra esposto, affermano il principio di diritto secondo cui «nell’ipotesi in cui un’azione giudiziale svolta nell’interesse del cliente non abbia potuto conseguire alcun risultato utile, anche a causa della negligenza o di omissioni del professionista, non è solo per questo ravvisabile un’automatica perdita del diritto al compenso da parte del professionista, ove non sia dimostrata la sussistenza di una condotta negligente causativa di un effettivo danno, corrispondente al mancato riconoscimento di una pretesa con tutta probabilità fondata».
Nel caso di specie, quindi, secondo la Cassazione l’avvocato non è passibile di condanna per il risarcimento del danno a favore del cliente e ha diritto al proprio compenso per l’attività professionale svolta.

Avv. Maria Teresa De Luca

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