Danni da emotrasfusioni, indiscutibile l’accertamento della Commissione

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danni da emotrasfusioni

Le dichiarazioni rese dalla Commissione medica ospedaliera, in tema di danni da emotrasfusioni, hanno valore di prova legale di confessione

In tema di danni da emotrasfusioni, nel giudizio promosso dal danneggiato contro il Ministero della salute, l’accertamento della riconducibilità del contagio ad una emotrasfusione, compiuto dalla Commissione medica ospedaliera in base al quale è stato riconosciuto l’indennizzo ai sensi della legge n. 210/1992, non può essere messo in discussione dal Ministero, quanto alla riconducibilità del contagio alla trasfusione o alle trasfusioni individuate come causative di esso, ed il giudice deve ritenere detto fatto indiscutibile e non bisognoso di prova, in quanto, essendo la Commissione organo dello Stato, l’accertamento è da ritenere imputabile allo stesso Ministero. E’ il principio ribadito dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 13261/2020.

Il caso esaminato dai Giudici Ermellini è quello di una donna che aveva agito in giudizio nei confronti del Ministero della Salute, nel 2014, proponendo separatamente la domanda per la corresponsione dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, e una domanda per l’accertamento della responsabilità extracontrattuale del Ministero della Salute e la condanna dello stesso al risarcimento di tutti i danni subiti a seguito del contagio di HCV, accertato nel 2011 ma derivante dalle trasfusioni alle quali si era dovuta sottoporre nel 1985, allorché veniva sottoposta a parto cesareo presso l’ospedale civile di San Benedetto del Tronto.

I due procedimenti venivano riuniti e veniva disposta CTU che accertava la riconducibilità dell’infezione alle trasfusioni di sangue del 1985 in termini di sostanziale certezza.

Entrambe le domande venivano accolte in primo grado, mentre in appello la domanda di risarcimento danni veniva rigettata, non ritenendo la corte d’appello che l’appellata avesse fornito la prova del nesso causale tra le trasfusioni, risalenti a molti anni prima e il contagio diagnosticatole nel 2011.

La ricorrente si rivolgeva quindi alla Suprema Corte, eccependo, tra gli altri motivi, che la corte d’appello non avesse attribuito il valore di prova legale di confessione alle dichiarazioni rese dalla Commissione medica ospedaliera allorché riconosceva esserle dovuto l’indennizzo, in violazione del principio di diritto affermato dalla giurisprudenza di legittimità.

Dal Palazzaccio hanno effettivamente ritenuto di aderire alla doglianza proposta, evidenziando come la corte territoriale non avesse dato in effetti alcuna comprensibile spiegazione dell’iter logico che l’aveva portata, a fronte del predetto accertamento della Commissione, richiamato dalla ricorrente in appello, a privare di alcun valore probatorio l’accertamento da essa positivamente condotto. Da li l’accoglimento del ricorso con cassazione della pronuncia impugnata e rinvio della causa al Collegio d’appello, in diversa composizione, per un nuovo esame del caso.

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