È stata una vera e propria odissea giudiziaria quella della famiglia di un uomo morto dopo una operazione al cuore e la cui cartella clinica era incompleta. Dopo anni, tutto si chiude con un accordo transattivo per 370mila euro.

Un caso di malasanità, riportato da La Nazione, che ha coinvolto un uomo deceduto dopo una operazione al cuore, si è concluso dopo anni.

Tanto c’è voluto prima che arrivasse la sentenza di primo grado per quanto avvenuto a un uomo di poco più di 40anni, padre di famiglia, deceduto dopo una operazione di vascolarizzazione miocardia a cuore battente.

Il paziente si era sottoposto all’intervento il 20 novembre 2012. Questo si era reso necessario a causa di un’angina da sforzo.

Ebbene, il 27 novembre, l’uomo è stato quindi dimesso e trasferito a Volterra per la riabilitazione.

Il giorno dopo, mentre praticava sotto controllo medico gli esercizi fisici che gli erano stati prescritti, l’uomo si sente male.

Si capisce subito che si tratta di arresto cardiaco, ma a nulla valgono i tentativi di rianimarlo. L’autopsia , effettuata poco tempo dopo, rivela che una sutura si era riaperta spontaneamente causando l’arresto cardiocircolatorio.

Secondo il consulente dei familiari della vittima è stata questa la causa della morte.

Un evento che dimostrerebbe appieno l’imperizia con la quale la sutura in questione era stata eseguita.

Appurato questo, inizia lo scontro in sede civile tra l’ente ospedaliero di Pisa e i medici citati in giudizio.

Questi ultimi, in particolare, contestano le argomentazioni difensive sostenendo che l’autopsia aveva evidenziato che la lacerazione si trovava nel contesto del tessuto sano.

Pertanto, a loro avviso, soltanto uno sforzo traumatico notevole poteva averla causata. Insomma, tutto sarebbe accaduto durante le manovre di rianimazione.

Dopo una serie di perizie, e l’aver appurato che la cartella clinica del paziente presentava delle notevoli mancanze, il giudice civile di Pisa scrive quanto segue.

“L’incompletezza della cartella clinica, che l’azienda sanitaria ascrive alla circostanza che si trattava di intervento routinario, nonché la carente relazione autoptica, hanno determinato la nomina di ben tre collegi per tentare di accertare le cause del decesso”.

E non è tutto. “La responsabilità per l’incompleta compilazione della cartella clinica (che se completa di descrizione avrebbe consentito di discernere tra errore medico e complicanza incolpevole) – prosegue il giudice – ricade in via esclusiva su coloro che l’hanno predisposta – o che avevano l’obbligo di farlo”.

Pertanto, secondo il giudice, non si può che invocare quella incompletezza “quale elemento dimostrativo della carenza di prova riguardo la sussistenza di circostanze rilevanti sulle responsabilità del fatto”.

“In tutti quei casi – conclude – in cui è impossibile individuare con certezza la causa, come pure quelli in cui è solo dubbia, la responsabilità non potrà che ricadere sul medico-ospedale che non ha adempiuto ai propri oneri probatori in ordine alla sua adeguata diligenza”.

Il giudizio di primo grado ha accolto le pretese di moglie e figlio. Ai familiari dell’uomo deceduto dopo una operazione sono stati riconosciuti 540mila euro di risarcimento. A ciò è poi seguito un accordo che ha ridotto la cifra iniziale a 370mila euro con rinuncia a proseguire nel giudizio.

 

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