Sottoposta a un trapianto di cellule staminali contrae il virus HCV

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La domanda del paziente viene rigettata perché non risulta provato da parte della paziente il fatto storico delle avvenute trasfusioni post trapianto di cellule staminali (Cassazione civile, sez. III, 05/07/2024, n.18384).

Il caso

La donna, sottoposta nel 1995 ad un trapianto di cellule staminali presso il Policlinico in quanto affetta da Linfoma non Hodgkin, nel 2008 citava in giudizio l’Azienda Ospedaliera Policlinico Consorziale assumendo di aver contratto, durante il suddetto ricovero, l’epatite C. Chiamava in causa anche l’ASL B, la quale a sua volta evocava in giudizio le proprie compagnie assicuratrici.

Il Tribunale rigettava la domanda, reputando che la patologia non fosse addebitabile all’azienda ospedaliera. La Corte d’Appello di Bari ha confermato il rigetto della domanda rilevando che solo in appello l’attuale ricorrente aveva denunciato il mancato controllo della qualità del sangue utilizzato per le trasfusioni asseritamente somministratele in ragione del trapianto, e quindi solo in appello aveva introdotto un’ipotesi di riconducibilità causale della malattia del tutto diversa da quella sostenuta in primo grado (in cui la stessa era stata indicata come derivante dal trapianto) e ritenendo che ciò comportasse un inammissibile mutamento della domanda.

I Giudici di Appello, inoltre, danno atto che non risulta neppure con chiarezza dalla cartella clinica che la paziente sia stata, nell’occasione del ricovero del 1995, sottoposta a trasfusioni, che ella non ha denunciato l’incompletezza della cartella clinica e che la stessa abbia fornito indicazioni lacunose al C.T.U., avendo indicato di essersi sottoposta a più trasfusioni in occasione del trapianto, e poi ad altre in periodo molto successivo, senza nulla indicare in relazione al periodo dal 1995 al 2004. Concludono affermando che non è verosimile che, nell’ambito di una delicata operazione di trapianto di cellule staminali, eseguita a regola d’arte, il Policlinico abbia effettuato una trasfusione senza documentarne le precise modalità di esecuzione.

La paziente impugna la decisione della Corte di appello di Bari.

La vicenda finisce in Corte di Cassazione

La ricorrente segnala che era stato chiesto al C.T.U. di verificare il collegamento tra la nuova patologia epatica e il trattamento sanitario ricevuto in ospedale, e di indicare quale potesse essere la presumibile origine di essa. Addebita alla sentenza impugnata di non aver voluto ricostruire con la dovuta accuratezza e completezza eventuali responsabilità del Policlinico.

La S.C. afferma non configurabile una omessa pronuncia, ma piuttosto la sentenza d’appello ha confermato il rigetto nel merito della domanda, confermando l’esito del giudizio di primo grado, secondo il quale non è risultato provato che la ricorrente abbia contratto l’epatite in occasione di quel ricovero, in particolare a causa di somministrazioni di sangue

Egualmente non è con figurabile alcun vizio di motivazione sulle critiche all’operato del CTU, che non avrebbe ricostruito l’effettivo trattamento sanitario cui fu sottoposta la paziente, andando anche oltre le risultanze della cartella clinica.

La doppia conforme

La paziente non si è confrontata con il limite della “doppia conforme”. Nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter, comma 5, c.p.c., il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 c.p.c. è inammissibile se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5947/2023; Cass. 7724/2022).

Nel caso di specie, la ricorrente ha ipotizzato, ma non è riuscita a provare, di essere stata sottoposta a diverse trasfusioni in occasione del trapianto di cellule staminali. L’azienda ospedaliera ha semplicemente negato di aver eseguito trasfusioni. I Giudici di appello hanno escluso che emergesse la prova della intervenuta somministrazione di trasfusioni in quella occasione.

Soltanto ove fosse stato provato il fatto storico della effettuazione delle trasfusioni, e fosse stato accertato, secondo un ragionamento probabilistico, che l’epatite, malattia lungolatente, la cui consapevolezza la paziente aveva acquistato a distanza di diversi anni dal trapianto, era da ritenersi in rapporto di derivazione causale con quelle trasfusioni, la struttura sanitaria sarebbe stata gravata dell’onere di fornire la prova liberatoria, consistente nella dimostrazione di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione della trasmissione di malattie a mezzo del sangue, ed in primo luogo nella attestazione della provenienza certificata di esso da struttura abilitata alla raccolta.

L’onere probatorio

Invece, la donna sostiene che era la struttura ospedaliera che avrebbe dovuto provare che le plurime trasfusioni cui fu sottoposta la paziente erano state eseguite con metodo corretto.

Ciò è giuridicamente errato, oltreché infondato. Non si può ragionevolmente ipotizzare di ribaltare sulla struttura ospedaliera l’onere probatorio relativo alla sussistenza del nesso di causa tra le trasfusioni eventualmente somministrate in occasione dell’autotrapianto di midollo osseo, e la patologia epatica della quale questa è risultata affetta a distanza di anni, affermando che sia la struttura a dover provare di non aver somministrato sangue infetto.

Infine, sull’asserito mutamento della domanda sentenziato dalla Corte d’Appello (che ha qualificato come domanda nuova l’affermazione, contenuta per la prima volta esplicitamente in appello, di aver contratto l’epatite a causa delle trasfusioni), la qualificazione contenuta nella sentenza in sé non è esatta, e viene corretta dalla Cassazione, perché la domanda risarcitoria proposta fin dal primo grado era volta a far accertare ad ampio raggio che la paziente avesse contratto la patologia epatica durante il ricovero in ospedale in occasione dell’autotrapianto di cellule staminali al quale si era sottoposta.

Quindi la domanda poteva ritenersi estesa ad ogni attività svolta in quella occasione dalla struttura sanitaria, dalla quale potesse essere derivato il contagio, incluse eventuali trasfusioni di sangue o emoderivati.

Avv. Emanuela Foligno

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