I giudici della Cassazione hanno accolto il ricorso di una madre contro la decisione della corte d’appello che si era espressa in ordine allo stato di adottabilità del suo figlio minore gravemente malato, sol perché la stessa era affetta da problemi psicologici e versava in uno stato di indigenza

Ma per i giudici della Suprema Corte tale giudizio è insufficiente posto che il giudice di merito deve sempre prioritariamente tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, può disporre la dichiarazione dello stato di adottabilità.

Valutare l’esistenza di condizioni di adottabilità di un minore non è mai operazione semplice. Le difficoltà aumentano quando ci si trova di fronte da una parte ad un minore affetto da grave malattia e dall’altra a genitori incapaci di affrontare la situazione. È quanto approssimativamente accaduto nel caso di specie.

I fatti

La madre si era opposta alla dichiarazione dello stato di adottabilità del figlio minore, bambino afflitto da gravissimi problemi di salute conseguenti all’ipossia alla nascita, che ne avevano causato la cecità, l’incapacità a parlare, l’incapacità a deambulare e la possibilità di interagire con il mondo esterno solo attraverso il tatto e l’udito, oltre che la soggezione a frequenti crisi epilettiche e respiratorie che ne rendevano necessario il ricovero in ospedale.

La Corte di appello dell’Aquila aveva respinto il gravame proposto dalla donna dal momento che era stato accertato che quest’ultima fosse affetta da problemi psicologici, oltre al fatto che si trovava in condizioni di indigenza e priva di lavoro e già in passato aveva dimostrato carenti capacità genitoriali.

La vicenda giungeva sino ai giudici della Cassazione, con ricorso presentato per violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8 e succ. mod., dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dell’art. 3 della Convenzione di New York, oltre che per la contraddittorietà della motivazione.

In altre parole, il difensore della ricorrente rappresentava che la corte territoriale avesse commesso un grave errore, quello cioè di aver trascurato l’ineludibile diritto del minore a crescere nella propria famiglia; e che, comunque, nel caso di specie, non sussisteva lo stato abbandonico propedeutico alla dichiarazione di adottabilità perché, nonostante le condizioni di indigenza della madre, ella non si era mai realizzato l’abbandono morale del piccolo.

Senza contare la contraddittorietà della decisione che se da una parte riconosceva i seri problemi psicologici della donna (non risolti), dall’altra parte non le impediva di continuare a frequentare il minore  una volta inserito in struttura.

Insomma i giudici dell’appello avrebbero ravvisato lo stato di abbandono con esclusivo riferimento alle sue precarie condizioni economiche, senza mai espletare la perizia psicologica per accertare le sue reali capacità genitoriali.

In sostanza la ricorrente lamentava l’insussistenza dei presupposti per la dichiarazione di adottabilità e la incompletezza dell’accertamento in merito allo stato di abbandono del minore.

Ed è stato proprio questo l’oggetto del ricorso per Cassazione.

Ebbene, il ricorso è stato dichiarato fondato e perciò, accolto.

Giova rammentare – affermano i giudici della Suprema Corte – che, secondo un principio consolidato che si intende confermare, “per la dichiarazione dello stato di adottabilità che determina la rescissione del legame familiare come prezzo inevitabile per evitare un danno maggiore ed irreversibile per il minore e che preclude qualsiasi possibile raffronto tra il tenore di vita consentito nell’ambito della famiglia naturale e quello che il minore potrebbe trovare in una famiglia adottiva – non è sufficiente l’inadeguatezza dell’apporto economico, affettivo o materiale dei genitori, e la loro limitatezza culturale, ma è necessaria la prova certa che le cure prestate dalla famiglia non superino la soglia di un’assistenza minima e si traducano nella mancanza delle cure più elementari.” (Cass. n. 8360 del 26/07/1993).

In proposito è stato ulteriormente precisato, alla luce del rinnovato quadro normativo conseguente alla riforma attuata con la L. 28 marzo 2001, n. 149, che il sacrificio dell’esigenza prioritaria del minore di crescere nella famiglia di origine è possibile solo in presenza di una situazione di carenza di cure materiali e morali da parte dei genitori e degli stretti congiunti – e a prescindere dalla imputabilità a costoro di detta situazione -, tale da pregiudicare in modo grave e non transeunte lo sviluppo e l’equilibrio psicofisico del minore stesso.

Il giudizio sullo stato di adottabilità del minore

Ma per compiere tale operazione è necessario focalizzare l’attenzione sul particolare rigore che deve accompagnare la valutazione della situazione di abbandono del minore quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità dello stesso; ricordando che “siffatta valutazione non può discendere da un mero apprezzamento circa la inidoneità dei genitori (o congiunti) del minore cui non si accompagni l’ulteriore, positivo accertamento che tale inidoneità abbia provocato, o possa provocare, danni gravi ed irreversibili alla equilibrata crescita dell’interessato, dovendo, invece, la valutazione di cui si tratta necessariamente basarsi su di una reale, obiettiva situazione esistente in atto, nella quale vanno individuate, e rigorosamente accertate e provate, soltanto le gravi ragioni che, impedendo al nucleo familiare di origine di garantire una normale crescita, ed adeguati riferimenti educativi, al minore, ne giustifichino la sottrazione allo stesso nucleo.” (Cass. 8877 del 14/04/2006).

A tal proposito si è anche detto che il particolare rigore richiesto nella valutazione dello stato di adottabilità non può fondarsi di per sé su anomalie non gravi del carattere e della personalità dei genitori, comprese eventuali condizioni patologiche di natura mentale, che non compromettano la capacità di allevare ed educare i figli senza danni irreversibili per il relativo sviluppo ed equilibrio psichico (Cass. n. 18563 del 29/10/2012).

Inoltre la natura personalissima dei diritti coinvolti e il principio secondo cui l’adozione ultrafamiliare costituisce l’extrema ratio richiedono che si proceda anche alla valutazione di figure vicariali dei parenti più stretti, che abbiano rapporti significativi con il bambino e si siano resi disponibili alla sua cura ed educazione (Cass. n. 3915 del 16/02/2018).

Il giudizio prognostico sulle capacità genitoriali

Sulla base di queste necessarie premesse, i giudici della Cassazione hanno ribadito il principio per cui i giudici di merito devono sempre operare un giudizio prognostico avvalendosi di dati oggettivi, quali possono essere le osservazioni dei servizi sociali che hanno monitorato l’ambito familiare e, eventualmente, il parere di un consulente tecnico (Cass. n.3915 del 16/2/2018), e il giudizio che deve essere teso, in primo luogo, “a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, senza però che esse assumano valenza discriminatoria, sia a quelle psichiche, da valutarsi, se del caso, mediante specifica indagine peritale, estendendo detta verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali.” (Cass. 7559 del 27/03/2018).

Nel caso in esame, la decisione è stata giustamente impugnata, non essendo essa conforme ai citati principi e dunque censurabile in sede di legittimità.

La Corte di appello avrebbe dovuto procedere ad un’analisi in fatto ed in diritto dello stato di abbandono, tenendo conto anche delle gravi condizioni di salute del minore – tali da indurre, sia sul plano della cura e dell’ assistenza, che su quello economico, una maggiore difficoltà nell’espletamento dei compiti genitoriali – correlandole ai problemi psicologici della madre. e procedendo, eventualmente, a CTU per accertare l’idoneità genitoriale e per verificare la possibilità e i tempi di terapie e percorsi di sostegno conformati sulle specificità del caso.

Compete, infatti, al giudice del merito, prioritariamente, tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità (Cass. n. 22589 del 27/09/2017).

L’inidoneità della madre ad affrontare la malattia del figlio non giustifica l’adottabilità

Nella fattispecie in esame, tali tentativi non risultano essere stati effettuati e neppure sono state evidenziate, rispetto alle gravi condizioni di salute del minore, condotte negligenti, abbandoniche o negazioniste da parte della madre, ma una inidoneità ad affrontarle da sola che avrebbero dovuto indurre ad una valutazione più penetrante circa la possibilità individuare un adeguato sostegno alla genitorialità, verificandone l’andamento e ad un giudizio meno severo circa la mancanza di un autonomo progetto di vita, stante la particolare gravità delle condizioni del minore.

Insomma il giudizio negativo sulle capacità genitoriale della madre si fondava, erroneamente, soltanto sulle sue condizioni di indigenza, mentre non vi erano elementi certi in ordine alla esatta natura ed alla rilevanza dei problemi psicologici e in ordine alla possibilità di una terapia anche assistenziale di sostegno.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 

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