La Cassazione ha confermato le condanne in primo e secondo grado di due condomini che avevano apposto sul portone l’elenco di coloro che erano in ritardo con il pagamento delle quote condominiale

La comunicazione contenente i nominativi dei condomini morosi affissa al portone condominiale, anche in presenza di un effettiva morosità degli stessi condomini, costituisce una condotta diffamante, non sussistendo alcun interesse da parte dei terzi alla conoscenza di quei fatti, anche se veri.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 39986 del 26 settembre 2014 pronunciandosi sul ricorso di due condomini condannati in primo grado e in appello per un reato di diffamazione (art. art. 595 del c.p.codice penale) commesso nell’ambito dei rapporti condominiali. I condomini, nello specifico, erano stati condannati per aver affisso al portone condominiale una lista di altri condomini in ritardo con i pagamenti dei contributi condominiali.

Rispetto alla sentenza, che prevedeva oltretutto il risarcimento del danno a favore dei ‘diffamati’, i due condannati avevano eccepito, di fronte alla Suprema Corte, la “manifesta illogicità della motivazione” della pronuncia “in ordine alla riconducibilità agli imputati della commissione del fatto di reato contestato”.

Gli Ermellini, tuttavia, non hanno accolto tali argomentazioni ritenendo del tutto ineccepibile il ragionamento svolto dal giudice di secondo grado “in quanto sostenuto da congrua e logica motivazione”. La Corte d’appello, infatti, aveva del tutto adeguatamente valutato gli elementi di prova emersi nel corso del giudizio, che avevano evidenziato che la comunicazione diffamatoria contestata era stata sottoscritta proprio da uno degli imputati , mentre l’altro imputato era stato visto “mentre affiggeva la comunicazione in questione al portone d’ingresso del condominio”.

Per la Cassazione, dunque, l’elemento oggettivo del reato di diffamazione doveva ritenersi sussistente, così come l’elemento soggettivo, essendo “sufficiente il dolo generico, che può assumere anche la forma del dolo eventuale, ravvisabile laddove l’agente faccia consapevolmente uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive”.

La Suprema Corte, infine, precisava che non poteva ritenersi applicabile la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica e di cronaca, dal momento che “occorre sempre valutare la rilevanza della diffusione della notizia che deve essere funzionale al corretto svolgimento delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali”. I giudici hanno pertanto confermato la sentenza di secondo grado respingendo l’azione proposta dai ricorrenti e condannandoli al pagamento delle spese processuali.

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