La Cassazione, sebbene in ambito differente dalla responsabilità medica, torna a ribadire in quale modo debba essere fornita la prova della qualità di erede (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 13 gennaio 2025, n. 817).
I fatti
La vicenda giudiziaria sorge da un sinistro stradale. Gli attori, congiunti della vittima deceduta, agivano per ottenere la condanna dei convenuti al pagamento della somma loro riconosciuta dal Tribunale di Roma a titolo di risarcimento del danno subito a seguito del sinistro fatale in cui perdeva la vita il loro congiunto.
Quindi allegavano di aver rilasciato mandato a G.M. e M.L.R., affinché incassassero per loro conto l’importo risarcitorio e quindi glielo trasferissero, e lamentavano di aver ricevuto dai mandatari somme inferiori rispetto a quelle effettivamente loro spettanti.
I due avvocati ammettevano di aver riscosso le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno e precisavano che, dopo aver detratto gli importi trattenuti a titolo di tasse e spese legali, avevano effettuato un bonifico cumulativo della somma rimanente in favore della moglie del defunto, non evocata in giudizio, che avrebbe a sua volta dovuto procedere a dividere l’importo con gli altri tre coeredi.
Il Tribunale di Tivoli rigettava le domande formulate dagli attori, sul rilievo che i convenuti avevano documentalmente provato di aver ottenuto l’incarico da parte di tutti gli eredi del defunto, di aver consegnato l’intera somma risarcitoria alla di lui vedova, di avere quest’ultima rilasciato dichiarazione scritta in cui si impegnava a dividere con gli altri coeredi la somma ricevuta dai mandatari, detratte le spese sostenute ed il compenso dovuto.
In Cassazione si lamenta la non raggiunta prova della qualità di erede
La Corte d’Appello di Roma accoglieva il gravame e, in riforma dell’impugnata sentenza, condannava in solido i due avvocati mandatari al pagamento delle somme dovute ai coeredi. La vicenda si spinge in Cassazione ove viene lamentata la non raggiunta prova da parte degli eredi della vittima di essere gli unici ed universali eredi del de cuius, esclusa la moglie.
“In tema di legitimatio ad causam, colui che promuove l’azione nell’asserita qualità di erede di altro soggetto, indicato come originario titolare del diritto, deve allegare la propria legittimazione per essere subentrato nella medesima posizione del proprio autore, fornendo la prova, in ottemperanza all’onere di cui all’art. 2697 cod. civ., del decesso della parte originaria e della sua qualità di erede, perché altrimenti resta indimostrato uno dei fatti costitutivi del diritto di agire.
Si è poi specificatamente precisato, in relazione alla prova della qualità di erede, che tale onere non è assolto con la produzione della sola denuncia di successione, bensì è idoneamente adempiuto con la produzione degli atti dello stato civile, dai quali è dato coerentemente desumere quel rapporto di parentela con il de cuius che appunto legittima alla successione ai sensi degli artt. 565 e ss. cod. civ. (Cass., n. 10519/2024; v. inoltre Cass., n. 210/2021).
La dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà non costituisce di per sé sola idonea prova della qualità di erede
La Corte di Appello si è pronunciata correttamente al riguardo. Innanzitutto ha affermato che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, artt. 46 e 47, non costituisce di per sé sola idonea prova della qualità di erede e l’ha poi presa in considerazione – non atomisticamente, bensì unitamente al certificato di morte, “non contestato da parte appellata” e contenente le annotazioni relative allo stato di coniugata di R.d.M.R.C. con la vittima, all’assenza di testamento ed alla presenza dell’unico figlio maggiorenne R.D.M.H.L. – al fine di riconoscere la qualità di eredi e la conseguente legittimazione attiva degli allora appellanti G.D.M.H.L. e R.D.M.H.L..
Dalla lettura della sentenza in questione risulta che la Corte di Roma non è incorsa in alcuna omissione. La S.C. ricorda che, come in questo caso, quando la sentenza di merito impugnata si fonda su più rationes decidendi autonome, nel senso che ognuna di esse è sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa e indispensabile che il soccombente le censuri tutte, dato che l’omessa impugnazione di una di esse rende definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, e le restanti censure non potrebbero produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza.
Il ricorso viene respinto.
Avv. Emanuela Foligno