No alla condanna del medico per il decesso del paziente morto per una peritonite determinata da una complicanza iatrogena post intervento

La giovane età del paziente e un coefficiente di salvezza del 50% non sono elementi sufficienti per condannare il medico accusato di omicidio colposo. È sempre il nesso causale fra la condotta del sanitario e l’evento morte a dover essere certo. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 30229 pronunciandosi sul ricorso di un medico, condannato in ordine al delitto di omicidio colposo per avere cagionato, in cooperazione colposa con altri medici giudicati separatamente, la morte di un paziente, già sottoposto ad intervento di video-laparocolecistectomia nella stessa struttura – non avendo seguito adeguatamente il suo decorso post-operatorio, nonostante presentasse, dopo l’intervento, una sintomatologia dolorosa anomala e preoccupante che avrebbe dovuto indurre l’imputata – anche attraverso esami strumentali – a diagnosticare la peritonite da cui era affetto, determinata da complicanza iatrogena a seguito del precedente intervento, causativa di un’evoluzione di shock settico irreversibile.

La Corte di appello aveva osservato che l’intempestiva diagnosi della perforazione colica da parte dei diversi medici di guardia della clinica aveva colpevolmente causato la morte del paziente; la peritonite era insorta alle ore 1.30 del 31.1.2015 ed era da tale momento che si doveva stabilire la tardività o meno degli interventi dei singoli sanitari; quando l’imputata visitò il paziente, alle ore 19 del 1.2.2015, la situazione del paziente era già grave e la dottoressa si sarebbe dovuta accorgere della peritonite in atto; sotto il profilo causale, premesso che la morte era da attribuirsi alla peritonite e alla sua mancata (tempestiva) diagnosi, dall’esame delle consulenze tecniche e della perizia emergeva che le percentuali salvifiche di un intervento riparatore sono elevate se questo avviene entro le prime 24 ore (ma secondo lo studio di Hecker entro le 12 ore) e si riducono sensibilmente (2% ogni ora successiva) trascorso tale periodo; considerato, quindi, che la visita dell’imputata era avvenuta quando erano già trascorse oltre 40 ore, nonostante la difficoltà di individuare quali fossero nella specie le probabilità di intervento salvifico, il perito aveva valutato nel 50% le probabilità che il paziente avrebbe avuto di salvarsi se l’imputata avesse formulato la diagnosi corretta ed attivato tempestivamente la procedura di emergenza per risolvere la situazione; stante l’assoluta insufficienza del solo dato statistico per affermare la sussistenza del nesso causale, la Corte di merito aveva ritenuto che l’omissione del medico rientrasse certamente nel 50% di probabilità salvifiche in ragione di ulteriori elementi disponibili: l’età della persona offesa (43 anni), l’assenza di pregresse patologie, la durata della sopravvivenza del paziente (tre giorni) dopo la visita, affermando quindi che se la diagnosi fosse stata tempestiva il paziente, con elevato grado di credibilità razionale, si sarebbe salvato.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte l’imputata deduceva, tra gli altri motivi, l’errata lettura della legge scientifica di copertura e la scorretta applicazione dei criteri inerenti all’accertamento del rapporto di causalità. Denuncia che la sentenza impugnata aveva fatto malgoverno dei principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di rapporto di causalità. È noto che la legge scientifica di copertura esprime un dato percentualistico (probabilità statistica) che necessita di una conferma rinvenibile nei dati indiziari del caso concreto (probabilità logica). La Corte territoriale non aveva considerato che il perito, indicando nel 50% le possibilità di sopravvivenza della persona offesa, si riferiva specificatamente alle condizioni di quel paziente, precisando che il medesimo “aveva 43 anni, era in buona salute e non presentava comorbidità degne di nota”. In tal modo, il perito quantificava la percentuale salvifica del 50% con riferimento al caso concreto, quindi tenendo conto anche degli altri elementi processuali valorizzati dai giudici di merito. In altri termini, la percentuale del 50% non era la probabilità statistica ma quella logica applicabile al caso concreto. La Corte territoriale, invece, aveva indebitamento considerato due volte i fattori età, pregresse patologie e sopravvivenza. In realtà, al momento della visita dell’imputata, il rischio di morte per la persona offesa si sarebbe attestato quantomeno in una percentuale oscillante tra il 61% ed il 73%, essendo già trascorse 41 ore e mezzo dall’esordio stimato della peritonite. Ne discendeva che il grado di probabilità logica di salvezza del paziente non poteva considerarsi elevato, attestandosi appunto intorno al 50%. Inoltre, erroneamente la Corte di merito aveva valorizzato il periodo di tempo in cui la persona offesa era sopravvissuta dopo la visita della ricorrente, incorrendo in un vizio che lambiva il travisamento della prova. Infatti, i dati scientifici si riferiscono esclusivamente alle possibilità di sopravvivenza del soggetto affetto da peritonite, possibilità che gradatamente diminuiscono col trascorrere del tempo, ma non dicono in quale momento il decesso si verificherà. La Corte avrebbe ragionato con la logica del conto alla rovescia, indicando addirittura il momento in cui, secondo gli studi menzionati, la persona offesa sarebbe dovuta morire, ma così non era: in quel momento, secondo gli studi scientifici, si elidono le possibilità di salvezza del malato, ma ciò non vuol anche dire che in quel momento interverrà la morte.

Gli Ermellini hanno ritenuto di aderire alle argomentazioni proposte, accogliendo il ricorso in quanto fondato.

È ormai acquisito nella giurisprudenza assolutamente dominante – hanno chiarito dal palazzaccio – il concetto secondo cui è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa). Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento.

Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Esso impone di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, per cui richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo. Per effettuare il giudizio controfattuale è, quindi, necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall’agente, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato.

In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o differito.

Le Sezioni unite, con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosicché, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto grado di credibilità razionale”.

L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio. Ne deriva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale. Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia dolorosa

Tanto premesso, rimane il problema di stabilire in che modo il coefficiente salvifico di probabilità statistica – idoneo a ricondurre causalmente l’evento al comportamento omissivo del medico – possa essere “modificato” dagli ulteriori dati indiziari processualmente emersi, mediante l’analisi delle particolarità del caso concreto, in maniera tale da sorreggere quel giudizio di “alta probabilità logica” idoneo a fondare la ragionevole certezza della configurabilità del nesso causale, e quindi la responsabilità penale del medico che abbia adottato un comportamento colposo. Si pone, cioè, il problema di fornire un criterio che indirizzi il giudicante nella delicata operazione di trarre dai dati indiziari che caratterizzano il fatto storico oggetto del vaglio processuale, un adeguato giudizio di tipo induttivo, dal quale sia possibile desumere, in uno con le valutazioni deduttive basate sui coefficienti di probabilità statistica e sulle generalizzazioni scientifiche o esperenziali, un motivato giudizio di “elevata credibilità razionale” con riferimento alla sussistenza del nesso causale – sul piano controfattuale – fra il comportamento omissivo addebitato e l’evento morte/lesioni.

Ebbene – ha affermato il Supremo Collegio – è evidente che un simile giudizio non potrà essere basato sulla mera “sommatoria” dei dati indiziari emersi rispetto al “nudo” dato statistico indicativo delle (generali e teoriche) probabilità di salvezza del paziente. I dati indiziari, piuttosto, dovranno essere attentamente scrutinati, singolarmente e nel loro complesso, dall’organo giudicante, e quindi analizzati – anche avvalendosi del parere degli esperti – al fine di offrire una ragionevole e convincente spiegazione in ordine alla concreta “attitudine” degli stessi ad incidere in maniera significativa sul coefficiente probabilistico di natura scientifico/statistica, incrementandolo in maniera tale da rendere (eventualmente) “elevato” il giudizio di “credibilità razionale” dell’ipotesi per cui, se il medico avesse adottato l’intervento omesso, il paziente si sarebbe salvato. Si tratta, insomma, di motivare adeguatamente sulla particolare “predisposizione” o “attitudine” degli elementi indiziari caratterizzanti il caso concreto, esaminati unitamente agli elementi deduttivi offerti dalle generalizzazioni scientifiche, ad incidere o comunque ad avere un “impatto” rilevante (e migliorativo) sul dato costituito dal mero coefficiente statistico probabilistico (impatto il cui effetto, evidentemente, dovrà essere tanto più significativo quanto più basso sarà il coefficiente salvifico espresso in termini percentuali), onde consentire al giudicante di offrire una argomentata valutazione di “alta probabilità logica” in ordine alla circostanza che il paziente, al di là di ogni ragionevole dubbio, sarebbe sopravvissuto se il medico avesse adottato il c.d. comportamento alternativo lecito, vale a dire l’intervento terapeutico omesso. Si tratta di un giudizio complesso che dovrà essere compiutamente argomentato e che, nella maggior parte dei casi, non potrà prescindere dal dato scientifico fornito dal contributo degli esperti. In tale prospettiva, il sapere scientifico acquisito nel processo mediante le conclusioni di periti e consulenti dovrà necessariamente essere utilizzato dal giudice di merito secondo un approccio metodologico corretto che presuppone la indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto.

Ma se è vero che il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata “probabilità logica”, deve essere qui precisato che l’esame dei dati che caratterizzano il fatto storico, ai fini del giudizio di tipo induttivo riguardante l’indagine controfattuale, non potrà mai essere basato su valutazioni di ordine congetturale, vale a dire sfornite di una adeguata base scientifica o esperenziale. Occorre, piuttosto, che di tali basi il giudice dia adeguato conto, al fine di offrire una motivata valutazione in ordine all’attitudine degli elementi indiziari caratterizzanti il caso concreto ad incidere sul coefficiente di probabilità statistica, in maniera tale da “elevarlo” fino a giungere ad un motivato giudizio di alta probabilità logica in ordine all’efficacia salvifica della condotta omessa, al di là di ogni ragionevole dubbio.

È poi noto che il giudice di merito può fare legittimamente propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire.

Entro questi limiti, è del pari certo, in sintonia con il consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, che non rappresenta vizio della motivazione, di per sé, l’omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della perizia (o della consulenza), poiché la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale, per adempiere compiutamente all’onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento.

Nel caso in esame, il giudice a quo non aveva fatto buon governo dei principi appena delineati.

La Corte d’appello aveva basato il suo giudizio controfattuale partendo dai dati statistici generali che, secondo l’evidenza scientifica a disposizione, collocava le probabilità di salvezza del paziente- ipotizzando un adeguato intervento dell’imputata finalizzato a diagnosticare tempestivamente la peritonite da cui era affetto il paziente – tra quelli al 50% votati ad esito infausto ovvero tra quelli dell’altro 50% ad esito salvifico. A tale coefficiente percentuale di salvezza, non particolarmente elevato, la Corte di merito aveva “aggiunto”, onde propendere per il 50% ad esito salvifico, alcuni elementi caratterizzanti il caso concreto, segnatamente: la giovane età del paziente, di anni 43 al momento del ricovero, ritenuto elemento che “assicura ottime capacità di recupero e di reazione sulla malattia, buone risorse energetiche, forza e vitalità non disgiunte da una forte componente psichica di voglia di vivere”; l’assenza di patologie pregresse; la “resistenza” e “tempra” dimostrata dal paziente una volta trasportato in ambulanza in ospedale, ove fu sottoposto ad intervento chirurgico di quasi 3 ore, tanto da sopravvivere per altri tre giorni, rispetto alla visita dell’imputata.

Si trattava di un ragionamento fallace, in quanto fondava il giudizio di elevata probabilità logica di sussistenza del nesso causale (in termini controfattuali) su un dato statistico probabilistico che il perito aveva estrapolato sulla base delle condizioni del paziente al momento della visita dell’imputata.

In altri termini, il dato statistico del 50% – attribuito al ruolo salvifico della condotta omessa – già considerava le condizioni fisiche di quel paziente al momento dell’intervento della ricorrente, per cui era illogico e non fondato su basi scientifiche o esperienziali il ragionamento della sentenza impugnata, che valorizzava induttivamente elementi ulteriori (giovane età, assenza di patologie e tempra del paziente) che erano già stati considerati dall’esperto per sostenere, alle condizioni date, una probabilità di salvezza del paziente pari al 50%, quindi non particolarmente elevata.

È nota la differenza esistente fra probabilità statistica e probabilità logica: la prima attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi; la seconda attiene alla verifica ulteriore, sulla base dell’intera evidenza disponibile, circa l’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento ai fini della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale. Il concetto di probabilità logica impone di tenere conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, integrando il criterio della frequenza statistica con tutti gli elementi indiziari astrattamente idonei a modificarla. Consegue che se la probabilità statistica viene integrata da tutti gli elementi probatori forniti dall’indagine processuale, è possibile pervenire ad una valutazione connotata da un elevato grado di credibilità razionale, non più espresso in termini meramente percentualistici.

Inoltre, ammesso che l’indicato coefficiente salvifico del 50% costituisca un dato di probabilità statistica, la sentenza impugnata non aveva motivato sulle specifiche ragioni — fondate su basi scientifiche o massime di esperienza – per cui quelle connotazioni positive caratterizzanti il caso concreto (giovane età, assenza di pregresse patologie ecc.) fossero idonee ad incidere sulle probabilità di salvezza del paziente, e quindi avessero l’attitudine, se valutate unitamente al dato statistico, a raggiungere quel grado di elevata probabilità logica, compatibile con il criterio di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio in punto di sussistenza (sotto il profilo controfattuale) del nesso causale fra il comportamento colposamente omesso e l’evento morte. Ciò al fine di poter affermare con ragionevole certezza che il paziente si sarebbe salvato se l’imputata avesse tempestivamente adottato il comportamento alternativo lecito.

In proposito, la Corte distrettuale accennava alla giovane età del paziente, alle sue ottime capacità di recupero e di reazione sulla malattia, alla sua forte “tempra”, senza spiegare su quali basi tali elementi sarebbero stati idonei a “rallentare” lo stato settico del paziente o comunque a consentire all’imputata, al momento della sua visita e qualora avesse adottato gli interventi terapeutici necessari, di salvare il paziente da una grave peritonite che era già insorta da oltre 40 ore, e che, a detta dello stesso perito, rendeva particolarmente difficile “individuare nella specie quali fossero le probabilità di intervento salvifico…”, alla luce del fatto che le perforazioni coliche, soprattutto quelle post-operatorie come nel caso di specie, “hanno una mortalità molto elevata. L’intervento chirurgico deve essere eseguito entro 24 ore per aver buone possibilità di sopravvivenza dei pazienti” (cfr. perizia dott. Tuveri, allegata in ricorso).

In definitiva, l’analisi sul nesso eziologico era stata svolta dai giudici di merito in termini erronei ed insoddisfacenti, trascurando di valutare in termini rigorosi e scientificamente accettabili i dati indiziari disponibili, al fine di verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato ragionevolmente evitato o differito con (umana) certezza.

La redazione giuridica

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