La Suprema Corte di Cassazione (III Sez. Civile, n. 2814/2018) ha chiarito i termini risarcitori da perdita del legame parentale

L’evento morte di un congiunto stretto da legame parentale di primo grado, quale il padre rispetto ai figli e il marito rispetto alla moglie rappresenta di per sé un evento capace di provocare una sofferenza umana di apprezzabile rilievo. L’evento in quanto tale, laddove sia riconducibile ad un comportamento colposo della struttura sanitaria, costituisce fonte di specifica responsabilità ex art. 185 c.p. e 2043 c.c.

In una recente sentenza, la Suprema Corte di Cassazione (III Sez. Civile, n. 2814/2018) ha chiarito i termini, in materia di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio e iure hereditario, da perdita del legame parentale.

Il danno c.d. iure proprio, è riconosciuto agli eredi, tutti legati al defunto da uno stretto vincolo di parentala (non contestato), nell’ipotesi di accertata alterazione psicofisica di questi ultimi; quando cioè si riscontri un effettivo danno alla salute.

Esso è riconducibile nella sfera del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., in quanto lesione dello specifico interesse – di rilevanza costituzionale – alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia.

Ebbene, secondo l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione, il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (art. 29, primo comma, Cost., con riferimento al danno da perdita del rapporto parentale) va inteso non già, restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando bensì bisogni e doveri, ma dando anche luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati” (Cass. 8827/03).

Nella liquidazione di tale danno sarà, pertanto, necessario vigilare in concreto quale sia stata da un lato, la sofferenza patita (anche non transeunte ma apprezzata nella sua prosecuzione nel tempo) e dall’altra, la compromissione della sfera affettiva familiare da ciò derivata; il tutto alla luce della allegazione e della prova – di cui è onerata parte attrice – in ordine alle condizioni soggettive di vittima e congiunto, del grado di parentela, delle rispettive età, dell’eventuale convivenza e di ogni altro indice che la parte interessata abbia inteso sottoporre all’attenzione del giudicante; al contrario, “ un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale (cd danno da rottura del rapporto parentale) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; tale onere di allegazione , peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche”. (cfr. Cass. Civi. Sez. III, n. 21060 del 2016).

Diverso è, invece, il cd danno tanatologico, ossia il danno derivante dalla perdita del diritto alla vita che, in quanto autonomo e diverso dal bene salute, è fruibile solo dal titolare e insuscettibile di essere liquidato per equivalente.

Invero, la questione è una delle più dibattute in materia.

Ci si riferisce, in particolare, alla possibilità che, in caso di lesioni mortali, maturi in capo alla vittima, un diritto al risarcimento del danno alla salute trasmissibile iure successionis agli eredi.

Secondo una impostazione minoritaria, la morte rappresenta la lesione più grave del bene della salute; ciò legittimerebbe la configurabilità di un danno biologico da morte risarcibile iure hereditatis. Secondo, invece, l’orientamento giurisprudenziale prevalente, il danno tanatologico non è configurabile come danno biologico perché la morte non costituisce lesione del diritto alla salute, ma incide sul distinto bene della vita.

La trasmissibilità agli eredi del diritto di credito risarcitorio per danno biologico è, pertanto, esclusa quando la morte segua l’evento lesivo a distanza di tempo così ravvicinata che rende non apprezzabile l’incisione del bene salute (assenza dello spatium vivendi): “In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità “iure hereditatis” di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo”. (Sez. Un. n. 15350 del 22/07/2015)

La Corte ci ricorda che presupposto per acquisire il diritto alla reintegrazione della perdita subita è la «capacità giuridica riconoscibile soltanto ad un soggetto esistente» (art. 2, comma 1 c.c.), ossia il fatto che la stessa vittima sia ancora in vita; ne consegue i danni non patrimoniali risarcibili alla vittima e trasmissibili iure hereditatis sono: 1) il danno biologico (danno terminale), lesione del bene salute come danno conseguenza, «consistete nei postumi invalidati che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato» dalla lesione alla morte. Al tal fine si richiede che tra evento lesivo e decesso sia intercorso un apprezzabile lasso temporale (ex multis, Cass. Civ., Sez. III, 30 gennaio 2006, n. 1877); 2) il danno morale soggettivo (danno catastrofale), ossia lo stato di sofferenza spirituale patito dalla vittima nell’avvicinarsi della fine-vita; trattandosi di un danno-conseguenza, è necessaria la prova della «lucida e cosciente percezione dell’ineluttabilità della propria fine» (ex multis, Cass. Civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537).

Avv. Sabrina Caporale

 

 

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