Respinto l’assunto secondo cui la predisposizione personale sarebbe da intendere quale concausa del manifestarsi del danno da demansionamento

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 10138/2018 si è pronunciata sulla controversia tra un lavoratore e un Ente pubblico poi confluito nell’Inps. Nello specifico sia in primo grado che in appello, i giudici avevano riconosciuto il demansionamento del dipendente, con conseguente condanna del datore al risarcimento del danno biologico subito.

L’Inps aveva quindi proposto ricorso per cassazione  evidenziando che il lavoratore, come accertato dal ctu, avesse una naturale propensione alla malattia psichica poi sviluppatasi. Pertanto tale condizione doveva essere considerata come concausa del danno. Inoltre questa doveva essere intesa come ‘l‘unica determinante dell’evento’. Mancava, infatti, la prova del “nesso di causalità tra i comportamenti datoriali ed il danno patito dal lavoratore”.

Per gli Ermellini, tuttavia, non appare tuttavia corretto l’assunto secondo cui la predisposizione personale sarebbe da intendere quale concausa del manifestarsi del danno. Nulla infatti autorizza ad affermare che “la situazione di latenza della patologia accertata dal c.t.u. si sarebbe conclamata in danno, senza il ricorrente dei fattori scatenanti afferenti alla vicenda penalistica e lavorativa apprezzati dal c.t.u. e puntualmente valorizzati dalla Corte d’Appello”.

Inoltre, chiariscono dal Palazzaccio, la sentenza definitiva di appello si fonda su chiarimenti resi del c.t.u.

Quest’ultimo afferma che il danno manifestatosi era da riportare non solo alla vicenda penalistica, ma anche al “vissuto persecutorio” in sede di lavoro. Vissuto che il c.t.u. riconosceva in nesso causale con il pregiudizio alla salute, qualora “la ricostruzione giudiziaria della vicenda fosse risultata conforme alle dichiarazioni del periziato”.

La Corte, avendo già accertato il comportamento dequalificante, aveva tratto la conclusione della ricorrenza del nesso concausale, tra le vicende penalistiche/lavoristiche e la manifestazione del danno.

Il Giudice a quo aveva  poi dedotto in termini giuridici la piena responsabilità datoriale verso il lavoratore secondo il principio di equivalenza delle concause. Per i Giudici dl Palazzaccio, quindi,  il motivo di ricorso si basa su un presupposto erroneo. L’accertamento di quel nesso c’era stato e il ricorrente non aveva posto effettivi argomenti logici atti a porne in dubbio la fondatezza. Di qui il rigetto del ricorso, in quanto infondato.

 

 

Hai vissuto un’esperienza simile? Scrivi per una consulenza gratuita a redazione@responsabilecivile.it o invia un sms, anche vocale, al numero WhatsApp 3927945623

 

Leggi anche:

LAVORATORE INVALIDO IN PROVA: QUANDO IL LICENZIAMENTO È ILLEGITTIMO?

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui