Cassazione Civile, Sez. VI-2, ordinanza 17/09/2013, n. 21148. 

La precedente certificazione d’invalidità lavorativa, seppure ai fini pensionistici, che accerta una grave patologia legittima l’annullamento della donazione intervenuta a distanza di un anno. Perciò, rilevata l’incapacità naturale, che poteva desumersi direttamente dal referto che aveva attestato l’invalidità al 100%, spetta a chi intenda provare l’efficacia dell’atto, dimostrare che questo sia stato compiuto in una fase di temporanea regressione della malattia.

A dirlo è una recente sentenza della VI-2 Sezione Civile della Cassazione.

Il caso riguardava la donazione che una donna, già dichiarata invalida con totale e permanente inabilità al lavoro e con necessità di assistenza continua, aveva disposto. Tale certificazione giungeva a seguito della diagnosi di arteriosclerosi cerebrale con turbe della memoria e del comportamento, e un vascolopatia cerebrale senile, a seguito della quale la stessa veniva dichiarata non più in grado di compiere gli atti quotidiani della vita.
La donazione era stata così annullata in primo grado. I beneficiari proponevano pertanto, impugnazione dinanzi alla competente Corte d’Appello di Catania, la quale ribaltando completamente la decisione di prime cure, dichiarava valido l’atto di disposizione, già annullato.

Giunti dinanzi alla Cassazione, il procedimento veniva ancora una volta ribaltato. Il Tribunale di primo grado, aveva correttamente fatto applicazione del principio giurisprudenziale dominante in materia secondo cui, una volta provata l’infermità mentale permanente, è onere di chi afferma la validità dell’atto dimostrare che sia stato compiuto in occasione di una temporanea regressione della patologia, ovvero in un lucido intervallo, secondo la corretta interpretazione delle norme di cui all’art. 2697 c.c. e 428 c.c. (cfr. Cass. Civ. n. 17130/2011, Cass. Civ. n. 9662/2003 e Cass. Civ. n. n. 4539/2002).

Al contrario, la Corte d’Appello, pur avendo acquisito al giudizio la prova di una malattia mentale e quindi di una patologia permanente, che avrebbe determinato l’inversione dell’onere probatorio ai fini della validità della donazione, ha ritenuto il referto ricollegabile soltanto all’accertamento dell’invalidità lavorativa finalizzata alla richiesta di una pensione e indennità di accompagnamento.

È evidente – affermano gli Ermellini – l’illogicità della motivazione addotta dal giudice di secondo grado –che invece di valutare direttamente se la malattia così come diagnosticata avesse o meno incidenza sulle facoltà cognitive del soggetto donante, ha desunto dalla certificata inabilità al lavoro che l’incapacità naturale non fosse stata esistente.

Avv. Sabrina Caporale

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