La Cassazione (12.04.2018, n. 9048 – Rel. Rossetti) entra nel merito sul diritto al risarcimento per i fratelli postumi in caso di errore del sanitario

I coniugi Di.Pa.Ci. e D.S.G. , sia in proprio che quali rappresentanti ex lege dei propri figli minori, convennero dinanzi al Tribunale di Napoli l’Università degli Studi di (OMISSIS) esponendo che:

la donna aveva dato alla luce il proprio figlio primogenito, nel reparto di ginecologia ed ostetricia del Policlinico Universitario, gestito dall’Università.

Il bimbo nacque con un grave ritardo neuromotorio dovuto ad ipossia cerebrale intra partum e secondo gli attori il danno fu causato dalla colpevole condotta dei sanitari del Policlinico Universitario, i quali nonostante un evidente quadro sintomatico di sofferenza fetale, non eseguirono prontamente un parto cesareo, non sorvegliarono adeguatamente la gestante durante il travaglio, e comunque le somministrarono dosi eccessive di ossitocina, che si rivelarono controproducenti rispetto al felice esito del parto.

L’Università si costituisce, negando la propria responsabilità e contestando il quantum debeatur.

Il Tribunale di Napoli accolse la domanda e la sentenza viene appellata da tutte le parti.

La Corte territoriale ha accolto parzialmente tanto l’appello principale proposto dall’Università, che quello incidentale proposto dai genitori, sia in proprio che quali rappresentanti dei propri figli minori, ritenendo, invece, che non spettasse alcun risarcimento ai minori D.P.R. e D.P.C. , fratelli postumi del bimbo deceduto, poiché, essendo nati dopo quest’ultimo, non poteva dirsi sussistente un valido nesso di causa fra l’ errore dei sanitari e il danno da essi lamentato.

La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione sia dai fratelli che dall’Università.

In quale caso sussiste il giudicato interno sulla qualificazione giuridica?

I ricorrenti lamentano, in primis, la formazione del giudicato sulla qualificazione giuridica della loro domanda, per trarne la conseguenza che, definitivamente qualificata la loro azione come extracontrattuale, essi avevano diritto al risarcimento anche dei danni imprevedibili, dal momento che l’irrisarcibilità di questi ultimi è prevista dall’art. 1225 c.c. per le sole ipotesi di inadempimento contrattuale.

Contro tale tesi però contrasta con la circostanza che l’appello proposto dall’Università, col quale si contestava l’esistenza e la risarcibilità del danno patito da fratelli postumi della vittima primaria, ha impedito la formazione di qualsiasi giudicato tanto sull’esistenza del danno, quanto sulla sua derivazione causale dall’illecito, quanto, infine, sulla sua risarcibilità

Per gli Ermellini è possibile che il giudicato possa formarsi anche sulla qualificazione giuridica della domanda adottata dal primo giudice (ex multis, Cass., n. 1152; Cass., n. 18427 del 2013.

Questa regola ha tuttavia un limite, nel senso che “nessun giudicato può formarsi sulla qualificazione giuridica data dal primo giudice alla domanda, quando l’appellante, pur non contestando formalmente quella qualificazione, col suo gravame sottoponga comunque al giudice d’appello una questione tale che, per essere accolta, presuppone una qualificazione giuridica della domanda diversa da quella adottata dal primo giudice”.

E quali implicazioni comporta?

Questo principio, applicato alla materia del risarcimento del danno, comporta che quando la pronuncia sull’esistenza e sulla risarcibilità del danno civile dipenda dalla qualificazione della domanda, l’appello con cui si deduca l’inesistenza del danno rimette necessariamente in discussione anche la suddetta qualificazione, ed impedisce la formazione del giudicato.

Nel caso de quo, essendo stata accolta dal giudice di prime cure la domanda di risarcimento del danno, ed una volta proposta impugnazione avverso il capo di sentenza che ha ritenuto esistente quel danno, il giudice d’appello venne per ciò solo investito del potere di riqualificare ex officio la domanda di risarcimento (cfr. Cass., n. 2374 del 1977 in seguito sempre conforme) e, a tale principio, mostrano, con la sentenza in esame, gli Ermellini dare continuità.

E’ configurabile un danno per i fratelli postumi?

La Cassazione osserva che tra la condotta dei medici e quel danno non v’è, in primo luogo, causalità materiale, spiegando che il concepimento e la nascita d’un essere umano sono conseguenze di atti umani coscienti e volontari, come tali capaci di interrompere qualsiasi nesso di causa.

Da tanto consegue, secondo gli Ermellini, che la scelta dei genitori degli odierni ricorrenti di generare dei figli non può dirsi “conseguenza” dell’errore commesso dai sanitari. E se quella scelta non fu conseguenza dell’errore medico, nemmeno potrà esserlo il disagio e gli altri pregiudizi lamentati dagli odierni ricorrenti, venuti al mondo per effetto di quella scelta”.

Esiste un rapporto di causalità giuridica?

No, perché le Sezioni Unite della Corte, chiamate a comporre i contrasti circa l’interpretazione dell’art. 1223 c.c., e sul modo di intendere il concetto di “danni immediati e diretti”, hanno stabilito che:

1) i danni “mediati e indiretti”, che l’art. 1223 c.c. esclude dal novero della risarcibilità, non vanno confusi coi danni c.d. “di rimbalzo o di riflesso”, i quali pure possono essere considerati conseguenza immediata e diretta dell’illecito;

2) i danni “da rimbalzo” sono quelli che:

  1. a) costituiscono una “conseguenza indefettibile” dell’illecito;
  2. b) attingono in modo immediato persone diverse dalla vittima primaria dall’illecito;
  3. c) attingono persone collegate da un “legame significativo” già esistente con il soggetto danneggiato in via primaria (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 9556 del 2002).

Ebbene, nel caso de quo, nessuno dei requisiti indicati sub 2) sussiste: non il primo, perché la nascita degli odierni ricorrenti non può dirsi una “conseguenza indefettibile” dell’errore commesso dai medici, non il secondo, perché manca l’immediatezza e non il terzo, perché al momento della commissione dell’illecito non esisteva ancora alcun “legame significativo” tra la vittima primaria ed i suoi fratelli, suscettibile di essere attinto dall’illecito.

E sul piano della logica formale?

Secondo gli Ermellini, le deduzioni dei ricorrenti non appaiono condivisibili sul piano della logica formale, in quanto ammettere che il fratello postumo di un bimbo nato invalido per colpa di un medico possa domandare a quest’ultimo il risarcimento del danno consistito nel nascere in una famiglia non serena, produrrebbe degli effetti paradossali; infatti, in teoria, anche “la madre potrebbe essere ritenuta responsabile del suddetto danno, per aver messo al mondo un secondo figlio, pur sapendo della preesistenza d’un fratello invalido, non solo nel caso di errore medico, ma dinanzi a qualsiasi fatto illecito lesivo dell’integrità psicofisica, tutti i parenti postumi della vittima primaria potrebbero domandare un risarcimento al responsabile; e sinanche il coniuge che contragga le nozze dopo l’infortunio del partner sarebbe legittimato alla richiesta di risarcimento, senza limiti di generazioni o di tempo. E non solo nel caso di danno non patrimoniale, ma anche per il danno patrimoniale i nati postumi potrebbero domandare il risarcimento all’autore dell’illecito: così, ad esempio, i figli postumi del creditore insoddisfatto potrebbero pretendere il danno dal debitore insolvente, per essere nati in una famiglia povera.

La reductio ad absurdum.

L’evidente insostenibilità di tali approdi evidenzia, in virtù della regola della reductio ad absurdum, l’erroneità del presupposto su cui si fondano, e cioè che persone non solo non nate, ma neanche concepite al momento della commissione del fatto illecito, possano domandare al responsabile di questo un risarcimento.

Come si quantifica il danno da perdita definitiva della capacità lavorativa patita da un neonato?

Il danno patrimoniale derivante dalla perdita definitiva della capacità di lavoro è un danno permanente, che può essere liquidato sia in forma di rendita (art. 2057 c.c.), sia in forma di capitale.

La Corte osserva che la c.d. “incapacità lavorativa” non è il danno: essa è solo la causa del danno, il quale è invece costituito dalla perdita o dalla riduzione del reddito da lavoro (cfr. Cass. n. 3961 del 1999).

Se l’infortunio totalmente invalidante è patito da un lavoratore, la causa (perdita della capacità di lavoro) e l’effetto (perdita del reddito) sono contestuali. Quando si verifica la prima, sorge anche il secondo, e di conseguenza si dovrà procedere alla sommatoria dei redditi passati, ed alla capitalizzazione dei redditi futuri, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione.

Se, invece, la perdita della capacità di lavoro sia patita da soggetto che non abbia ancora raggiunto l’età lavorativa, si verifica uno scarto temporale tra il momento in cui si verifica la causa di danno (la perdita della capacità di lavoro) e quello in cui si manifesterà il suo effetto (la perdita del reddito da lavoro).

Quest’ultimo infatti non sorge al momento del fatto illecito, per l’ovvia considerazione che il minore, anche se fosse rimasto sano, non avrebbe comunque prodotto redditi, e di conseguenza non poteva perderli.

Il danno patito dal minore che perda la capacità di lavoro inizierà, invece, a prodursi nel momento in cui la vittima, raggiunta l’età nella quale, se fosse rimasto sano, avrebbe verosimilmente iniziato a lavorare, dovrà rinunciare al lavoro ed al reddito da esso ricavabile.

Come si applica il metodo della capitalizzazione?

Si può ricorrere a due sistemi:

  1. a) capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento del danno, e poi ridurre il risultato moltiplicandolo per il c.d. coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione;
  2. b) capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento in cui avrebbe presumibilmente iniziato a lavorare.

Ragionando in maniera difforme da tanto la vittima si vedrebbe assegnare una somma di denaro a titolo di ristoro di redditi mai perduti, e ciò costituirebbe una violazione dell’art. 1223 c.c..

La Corte rileva che la sentenza impugnata non si è attenuta a questi principi, in quanto con il proprio atto d’appello, l’Università lamentava il fatto che la Corte d’appello avesse liquidato il danno da perdita della capacità di lavoro patito da D.P.F. omettendo di capitalizzare il reddito da questi perduto in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età che la vittima avrebbe avuto al momento di ingresso nel mondo del lavoro.

Ebbene, la Corte territoriale ha rigettato tale doglianza travisandone interamente il senso avendo ritenuto che era facoltà del Tribunale, nel liquidare equitativamente il danno in questione, fare riferimento alla “pensione sociale del giorno in cui è stata decisa la controversia, anziché a quella del giorno dell’evento.

Per la Corte di Cassazione, pertanto, la sentenza va dunque cassata con rinvio su questo punto e la Corte d’appello di Napoli, nel tornare ad esaminare la doglianza proposta dall’Università, dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto:

(A) Il danno da perdita della capacità di lavoro deve essere liquidato:

(à) sommando e rivalutando i redditi già perduti dalla vittima tra il momento del fatto illecito e il momento della liquidazione;

(à’) capitalizzando i redditi che la vittima perderà dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione.

(B) Quando il danno da perdita della capacità di lavoro sia patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire:

(b’) sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa, e quello della liquidazione;

(b’’) capitalizzando i redditi futuri, che la vittima perderà dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione;

(b’’’) se la liquidazione dovesse avvenire prima del raggiungimento dell’età lavorativa da parte della vittima, la capitalizzazione dovrà avvenire o in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento del presumibile ingresso nel mondo del lavoro; oppure in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione, ma in questo caso previo abbattimento del risultato applicando il coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione.

 

Avv. Maria Teresa De Luca

 

 

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