Errore giudiziario? Risarciti tutti i danni non patrimoniali

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L’art. 643, comma 1, c.p.p., nella parte in cui fa espresso riferimento all’errore giudiziario (che si concretizza nell’ingiusta condanna) e alle conseguenze (personali e familiari) della condanna, impone al giudice di tenere conto, oltre che dei pregiudizi derivanti dalla custodia cautelare sofferta, anche dei pregiudizi riconducibili al processo penale promosso nei confronti dell’istante e non soltanto di quelli riferibili alla ingiusta condanna.

Con sentenza del 25 febbraio 2016, n. 7787 la Corte di Cassazione si è espressa nuovamente sull’annosa questione della qualificazione della riparazione per ingiusta detenzione e per errore giudiziario, nonché sui criteri per la sua corretta determinazione.

Anzitutto, riteniamo sia opportuno distinguere le due ipotesi (ingiusta detenzione ed errore giudiziario), che sono diverse per presupposti e per disciplina applicabile, sebbene nel nostro caso, la Cassazione si sia espressa più incisivamente sul secondo istituto.

La riparazione per ingiusta detenzione trova disciplina in fonti internazionali e nazionali. Tra le fonti internazionali, si vedano l’art. 9.5 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e l’art. 5.5. della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Nell’ordinamento italiano trova invece applicazione l’art. 314 c.p.p., disposizione la quale prevede che “chi è prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave…

Anche la riparazione per errore giudiziario è riconosciuta da diverse fonti normative; a livello sovranazionale, si applica l’art. 3 del Protocollo della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e l’art. 14.6 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e l’art. 85.2 dello Statuto della Corte Penale Internazionale. Limitandoci al nostro ordinamento, rilevano senz’altro l’art. 24, comma 4 della Costituzione (nel quale si prevede che “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”) e l’art. 643 c.p.p., (ove si prevede che colui che sia stato prosciolto in sede di revisione in sede di giudizio di revisione, qualora non abbia dato causa, con dolo o colpa grave, all’errore giudiziario ha diritto ad una “riparazione commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna”).

Ciò premesso, vediamo le principali argomentazioni affrontate in sentenza.

Il ricorrente lamentava che la corte territoriale chiamata a pronunciarsi sul rimedio indennitario fosse incorsa in errore nella misura in cui aveva escluso “che i danni non patrimoniali richiesti siano collegabili eziologicamente all’errore giudiziario, avendo invece, ritenuto che essi fossero conseguenti all’ingiusta detenzione patita poiché il ricorrente non aveva provato che le conseguenze pregiudizievoli della salute derivassero dalla erronea sentenza di condanna”.

Non solo. Il ricorrente contestava le motivazioni con le quali la Corte territoriale aveva escluso il riconoscimento del lucro cessante, ritenendo non provato dal richiedente il mancato guadagno derivante dall’aver percepito in Brasile, durante la sua latitanza, una retribuzione inferiore rispetto a quella che avrebbe guadagnato in Italia. La Corte territoriale, per escludere tale danno, arriva addirittura a sostenere che in quel Paese il ricorrente avrebbe perfino “migliorato le sue attività lavorative e ricreative”.

Infine, un ulteriore motivo di ricorso atteneva alla mancata considerazione di tutte le voci di danno (quali, il danno biologico, il danno morale soggettivo, il danno esistenziale, il danno da ingiusta detenzione ed il danno per il periodo di obbligo di soggiorno). In questo modo, la Corte territoriale sarebbe giunta ad un riconoscimento unitario ed omnicomprensivo dell’indennizzo, senza distinguere le diverse ipotesi.

Esaminati tali motivi di ricorso, la Cassazione così si è espressa.

Anzitutto, essa ha stabilito (muovendo in questo senso dall’orientamento di Cass., 18 marzo 2009, n. 22688 in tema di danno esistenziale) che, nella liquidazione del danno non patrimoniale, si deve tener conto di tutte le sfaccettature di cui si compone il caso concreto, quali “l’interruzione delle attività lavorative” e di quelle affettive, nonché del “… mutamento radicale peggiorativo e non voluto delle abitudini di vita”.

In particolare, la medesima Corte di Cassazione, ha ritenuto ingiustamente limitativo il principio affermato dal Giudice territoriale secondo cui “l’unico danno biologico liquidabile” sarebbe soltanto quello collegabile al periodo di ingiusta detenzione e non invece quello derivante dai pregiudizi subiti per effetto della sentenza di condanna “erronea”.

Tale pronuncia non sembra connotata da particolare innovatività, anche in considerazione di pregresse pronunce della Cassazione (cfr., sent. Cass. n. 22444/15, e soprattutto sent. Cass. n. 2050/2004, c.d. “caso Barillà”).

Infatti, si può dire sostanzialmente consolidato quel principio secondo cui il danno biologico è costituito dalla compromissione dell’integrità psicofisica della persona alla quale si accompagna una perdita o riduzione di funzioni vitali. Inoltre, la medesima Corte ha precisato altresì che, ai fini della determinazione di tale danno, non si è tenuti ad osservare scrupolosamente il criterio tabellare adottato dalla giurisprudenza civile, dovendosi ritenere che la natura non patrimoniale di questo tipo di danno consenta di ricorrere anche a criteri equitativi, “purché non illogici e che conducano ad un risultato che non si discosti in modo irragionevole e immotivato dai menzionati parametri tabellari” (in questo senso, cfr. sent. Cass. pen., 23 maggio 2013, n. 36442).

Per quanto riguarda il danno patrimoniale (lucro cessante), la Cassazione, anche in questo caso, sembra esprimersi nel solco della tradizione, riconoscendo l’ammissibilità dell’utilizzo di criteri equitativi nella determinazione del danno, seppur in assenza dell’espresso richiamo all’equo indennizzo nella norma relativa al riconoscimento della riparazione per errore giudiziario (arg. ex art. 643 c.p.p.).

Nel nostro caso, poi, è apparsa davvero illogica la tesi della Corte territoriale che, per negare il lucro cessante, è arrivata addirittura a sostenere che la latitanza in Brasile del soggetto erroneamente condannato non sarebbe stata risarcibile soltanto per presunti “effetti positivi” che lo stesso avrebbe ricavato per il “forzato” esilio.

Per concludere: al di là di considerazioni sulla prova del danno (sulle quali ovviamente la Corte di legittimità non si è pronunciata, rimettendo tali aspetti alla revisione nel merito), la Cassazione sembra aver confermato – ancora una volta – la natura mista, indennitaria e risarcitoria, della riparazione per errore giudiziario, peraltro ormai decisamente consolidata in dottrina e giurisprudenza.

Avv. Marco De Nadai

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