Esecuzione di colonscopia e decesso del paziente. Importante obiter dictum della Cassazione Sezione penale.

Esecuzione di colonscopia e decesso del paziente (Cass. pen., sez. IV, dep. 29 luglio 2022, n. 30051).

Nel caso in cui via sia cooperazione tra differenti Medici, qualora venga richiesto un esame invasivo, lo Specialista esecutore deve valutare, oltre alla presenza di fattori che possano condizionare negativamente l’esame stesso, anche la bontà della scelta diagnostica operata dal Medico richiedente in relazione alla sintomatologia lamentata dal paziente, in presenza o meno di elementi ed indagini precedenti che avvalorino il sospetto della malattia ipotizzata.

La vicenda riguarda la condanna omicidio colposo inflitta in primo e secondo grado al Chirurgo per avere causato una perforazione sigmoidea iatrogena a circa 11 cm dallo sfintere anale, nel corso dell’esecuzione di colonscopia ad una paziente anziana che lamentava  da circa tre mesi un’algia addominale.

La Suprema Corte ha giudicato il ricorso infondato ed ha approfondito i profili di responsabilità addebitabili allo Specialista.

Sul punto è corretto, e viene confermato, quanto stabilito dai Giudici di merito, ovverosia che il Chirurgo non avrebbe correttamente valutato l’esecuzione di colonscopia. Difatti, in relazione ai sintomi della paziente le linee guida non indicano l’esecuzione di colonscopia tra gli esami consigliati in ragione del notevole rischio di perforazione della parete intestinale, tanto più su soggetti femminili in tarda età.

Non è sufficiente l’analisi dell’anamnesi, come in realtà effettuato dal medico imputato, dovendosi a ciò aggiungere una imprescindibile valutazione della indicazione dell’esame nel caso specifico, pur se prescritto da un collega di medicina generale o da altro specialista. Il Chirurgo endoscopista non è un mero esecutore di esami strumentali, avendo egli il dovere di optare per una differente scelta diagnostica, in casi particolari.

E ciò, tanto più se si considera che lo Specialista imputato sottopone al paziente la “Dichiarazione di avvenuta informazione ed espressione del consenso alla procedura diagnostica terapeutica”.

Ebbene, se è vero che il Medico deve indicare al paziente i benefici della procedura, possibili inconvenienti e complicanze, nonché eventuali alternative alla procedura proposta, allora, è pacifica la necessità di una sua preventiva diagnosi clinica, a prescindere dalle richieste effettuate in via generale da altri colleghi, specialisti e non.

Il Sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro professionista e controllarne la correttezza, anche, eventualmente, ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e come tali rilevabili tramite l’uso delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Cass. pen., n. 53315/2016).

L’obbligo di diligenza che grava su ciascun sanitario non è solo quello riguardante le mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui.

Trattandosi di Chirurgo endoscopista, e dunque di specialista del settore,  l’imputato avrebbe dovuto valutare se una paziente con le caratteristiche proprie di quella a lui sottoposta, dovesse necessariamente subire l’esecuzione di colonscopia, o se si potesse svolgere altro esame meno invasivo.

A maggior ragione, se si considera che le linee guida ASGE (Società americana di endoscopia digestiva) non contemplano la colonscopia in presenza di un dolore addominale cronico come quello di specie.

Per tali ragioni non vi è dubbio che la morte della paziente sia stata determinata dalla peritonite conseguente alla perforazione intestinale, la quale non si sarebbe verificata in assenza della colonscopia.

Oltre ciò, all’imputato viene anche contestato di non avere interrotto l’esame nel momento in cui si era reso conto della scarsa “pulizia intestinale” e di avere invece proseguito, facendosi strada con l’endoscopio “in qualche modo” (così riportava il referto) fino alle sezioni destre dell’intestino.

Concludendo, gli Ermellini ritengono corretta la valutazione della sussistenza del nesso causale in relazione ad entrambi i profili censurati.

Avv. Emanuela Foligno

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