In materia di risarcimento del danno l’arricchimento conta se è frutto di una particolare condotta: quella dello sfruttamento indebito di beni o risorse altrui

L’azione per il risarcimento dei danni

Il ricorso nasce da una controversia risalente nel tempo, e risolta in tre diverse cause, tutte tra le stesse parti. In sintesi, per il tramite di un quotidiano, la società editrice aveva pubblicato alcuni articoli in cui alludeva al coinvolgimento di un avvocato in fatti di terrorismo. Per tali allusioni la società editrice era stata condannata, in diversi giudizi, al risarcimento dei danni da diffamazione, prima a favore dell’avvocato e poi, dopo la sua morte, ai suoi eredi (moglie e due figli).

Nel terzo dei giudizi intentati dal diffamato la società editrice era stata altresì condannata alla pubblicazione, a sue spese, della sentenza di condanna su diversi quotidiani nazionali.

Non avendo ottemperato a quest’ordine, gli eredi dell’avvocato avevano agito in giudizio per il risarcimento del danno.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Firenze aveva ritenuto di dover quantificare il danno nella misura corrispondente all’arricchimento del danneggiante, ossia al costo da quest’ultimo risparmiato omettendo la pubblicazione, pari a 136 mila euro.

La Corte di Appello aveva ritenuto, invece, che l’ammontare del danno dovesse ridursi in ragione della inerzia dei danneggiati che, pur potendo provvedere a loro spese alla pubblicazione (art. 120 c.p.c.), non lo avevano fatto, cosi contribuendo al danno subito (art. 1227 c.c.).

Il principio di diritto

La Corte di Cassazione annullava con rinvio la sentenza impugnata, affermando il principio di diritto secondo cui l’inerzia del danneggiato che non provvede da sé alla pubblicazione della sentenza, non costituisce concorso colposo valutabile ai fini del risarcimento.

In sede di rinvio, la Corte di Appello di Firenze, ritenendo che il danno non potesse stimarsi come aveva fatto il Tribunale di Firenze a suo tempo, ossia tenendo conto dell’arricchimento del danneggiato, vale a dire del costo risparmiato da costui per l’omessa pubblicazione, ma doveva essere stimato (in base all’art. 2043 c.c.) equitativamente non essendovi parametri oggettivi cui ancorarlo, riconosceva alle parti una somma inferiore (100 mila euro) rispetto a quella liquidata a suo tempo dal Tribunale (136 mila).

In altre parole, aveva qualificato la condotta del diffamante, che aveva omesso di ottemperare all’ordine di pubblicazione della sentenza, come un caso di fatto illecito ex art. 2043 c.c.; ciò anche sulla scorta della ratio del rimedio della pubblicazione della sentenza di condanna, la cui funzione è quella di integrare il risarcimento, ossia di fornire una riparazione del danno subito, complementare a quella che può venire dal risarcimento per equivalente; cosi che anche l’ordine di pubblicare la sentenza ha uno scopo risarcitorio, e la sua violazione provoca un danno risarcibile nei termini di cui all’art. 2043 c.c., dunque nei termini del pregiudizio subito. Trattandosi tuttavia, di un pregiudizio non stimabile con criteri oggettivi, ne sarebbe imposta una valutazione equitativa.

Contro tale sentenza gli eredi del defunto avvocato proponevano nuovamente ricorso per Cassazione contestando la tesi sostenuta dalla corte d’appello fiorentina.

Ad avviso dei ricorrenti è errato ritenere che il danno da risarcire coincida con il pregiudizio subito dai danneggiati, senza tener conto dell’arricchimento che invece ha avuto il danneggiante mediante il fatto illecito; la corte d’appello avrebbe dovuto, pertanto, applicare alla fattispecie in esame l’art. 2041 c.c. (azione generale di arricchimento) e non già l’art. 2043 c.c., anche in ragione della funzione del rimedio della pubblicazione della sentenza che non è meramente risarcitorio e non è complementare al risarcimento per equivalente.

Ebbene, la Corte di Cassazione ha osservato che la regola di cui i ricorrenti chiedevano l’applicazione (risarcimento del fatto ingiusto non nei limiti del danno subito, ma in quello dell’arricchimento conseguito dal danneggiante) non è espressamente codificata nel nostro ordinamento, dove, anzi, vige il principio opposto secondo cui il risarcimento è limitato al pregiudizio subito e non deve superare il valore di quest’ultimo.

La ratio dell’istituto dell’arricchimento mediante fatto ingiusto, è infatti quella di garantire la funzione preventiva del risarcimento, che altrimenti sarebbe vanificata.

Chi prevede che danneggiando un terzo ricaverà un guadagno maggiore del danno che infligge, e sa che dovrà restituire solo quest’ultimo, sarà portato a danneggiare, avendone comunque un vantaggio, pur dopo aver corrisposto il risarcimento.

La regola dell’arricchimento mediante fatto ingiusto mira ad evitare questo effetto scoraggiando l’illecito proprio attraverso la previsione di restituire l’intero arricchimento ottenuto.

Il danneggiato è in tal modo svincolato dai limiti dell’art. 2041 c.c., che non avrebbe in tal caso carattere sussidiario proprio per la sua coincidenza con il fatto illecito, o meglio la sua interferenza con esso, cosi che la necessità di risarcire nei limiti dell’arricchimento ricavato sarebbe il frutto della combinazione delle due norme.

Questa tesi, sostenuta in sede teorica, è stata però ritenuta inadeguata al caso in esame, ed in generale rispetto al danno aquiliano.

Il Supremo Collegio ha, infatti, affermato che “l’arricchimento conta ai fini risarcitori se è frutto di una particolare condotta: quella di sfruttamento indebito di beni o risorse altrui”.

In questi casi, infatti, può farsi anche applicazione analogica artt. 1148 c.c., e art. 125, comma 3 codice proprietà industriale.

Fuori da tali casi, è applicabile direttamente o analogicamente l’articolo, pure sopra richiamato, art. 2032 c.c., quando l’operato abusivo sia ratificato dal danneggiato, che dunque fa proprio l’utile netto.

In ogni altra ipotesi, se si ammettesse rilievo all’arricchimento, il danneggiato lucrerebbe una somma superiore al danno subito.

In altre parole, la regola propria dell’illecito civile, secondo cui il risarcimento va commisurato al danno subito dal danneggiato, e non deve essere superiore a questo, potrebbe in questo modo subire eccezioni quando l’illecito sia connotato dai presupposti propri dell’arricchimento senza causa, che sono, per l’appunto, quelli di una condotta di interferenza nei beni altrui, e di sfruttamento illecito delle loro potenzialità.

La decisione

Nessuna di queste ipotesi ricorreva nel caso in esame, nel quale l’arricchimento del gruppo editoriale era consistito nel risparmio realizzato nel non aver sopportato i costi di pubblicazione, ed era un arricchimento che non solo non derivava dallo sfruttamento indebito del diritto altrui, ma era semplicemente insito nell’inadempimento stesso, ossia nella stessa mancata ottemperanza alla sentenza.

In definitiva, la Cassazione (Terza Sezione Civile, ordinanza n. 8137/2020) ha rigettato il ricorso e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese di lite.

La redazione giuridica

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