I genitori del bambino leso citano a giudizio il ginecologo di fiducia e la Casa di Cura Villa San Francesco dove la mattina di Natale del 1993 era venuto alla luce il figlio con grave sofferenza fetale conseguente ad anossia da parto, dalla quale aveva riportato una invalidità permanente pari al 100%. Addebitavano al ginecologo di aver sottoposto la gestante ad una induzione farmacologica del parto naturale senza informarla dei possibili rischi ad essa connessi e senza averne ricevuto un valido consenso informato. Di aver, inoltre, omesso una adeguata assistenza in merito alla scelta terapeutica, rivelatasi erronea, allontanandosi dalla clinica dopo aver fatto applicare il cardiotocografo e di aver proceduto al taglio cesareo, resosi necessario, con notevole ritardo.
La vicenda giudiziaria
Nelle more del giudizio il piccolo decede e il Tribunale condanna il ginecologo al pagamento della somma complessiva di 1.170.000 euro in favore degli attori. Venivano invece rigettate le pretese avanzate dagli attori nei confronti della Casa di cura Villa San Francesco.
La Corte d’appello di Catania ha accertato esclusivamente il diritto al risarcimento del danno da lesione del consenso informato in capo alla madre del bambino per non averla correttamente edotta circa l‘induzione farmacologica del parto, liquidandolo in 9.000 euro. Quindi ha accuratamente ricostruito, anche a mezzo di una nuova CTU, l’iter cronologico che ha preceduto la nascita accertando che non potessero ritenersi plausibili gli orari riportati nella cartella clinica in relazione alle attività ivi descritte, e concludendo nel senso che, alla luce di una dettagliata ricostruzione della sequenza degli accadimenti riportata in sentenza, l’intervento medico – consistente nell’effettuazione del parto cesareo allorché si verificava la sofferenza fetale – dovesse considerarsi effettivamente intervenuto in ritardo rispetto alla manifestazione della ipossia nel nascituro.
L’accesso alla Corte di Cassazione
I genitori della piccola vittima criticano la sentenza di appello resa in sede di rinvio per aver ritenuto non sussistente il nesso causale tra la condotta del medico (a carico del quale pur sono stati accertati la violazione degli obblighi di informazione e il ritardo nella esecuzione del parto cesareo) e il danno.
La censura viene respinta (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 4 dicembre 2024, n. 31036). La sentenza è stata riformata per vizio totale di motivazione sul punto del danno alla salute del bambino e dei danni riflessi patiti dai genitori, con indicazione alla Corte d’appello di alcuni elementi precisi, emergenti dagli atti di causa, che non poteva non scrutinare al fine di arrivare ad una motivata decisione sulla lesione o meno del diritto alla salute del bambino e del rapporto parentale.
La sentenza di appello compie una propria accurata e motivata ricostruzione e valutazione dei fatti, comprensiva del comportamento del medico, delle valutazioni dei CTU, degli esami obiettivi sulla persona del bambino, e conclude che non il ritardo nell’eseguire il cesareo, pur accertato, né l’induzione farmacologica del parto ma esclusivamente cause genetiche siano alla base dei molteplici problemi neurologici del piccolo: la motivazione è accurata e non priva di logica.
In definitiva, i ricorrenti vogliono ritornare all’esame compiuto sul punto della sussistenza del nesso causale tra la condotta del medico e l’ipossia riscontrata nel neonato, sollecitando una completa rivalutazione dei fatti di causa, riproducendo passaggi della CTU di primo grado sulla base della quale il tribunale aveva inizialmente accolto la loro domanda. Essi non formulano neppure, in effetti, una critica in diritto ma denunciano la mancata considerazione di circostanze di fatto valorizzate diversamente dal tribunale senza nemmeno mettere in luce una contraddittorietà irrisolvibile della motivazione.
Avv. Emanuela Foligno