“Il documento venuto alla luce dopo la sentenza, in particolare quella del Giudice del gravame azionato dalla lavoratrice, avrebbe dovuto far parte di quegli atti e di quelle prove che erano finalizzati a sostenere le ragioni della domanda mentre, in concreto, si è trattato di un documento a tutti gli effetti nato dopo le domande e dopo la sentenza” (Corte d’Appello di Milano, Sez, Lavoro, Sentenza n. 34/2021 del 24.8.2021).

Con la sentenza n. 454/2020 emessa in data 12 giugno 2020 , la Corte di Appello di Milano, nell’ambito del procedimento esperito dal lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro per contestare il licenziamento intimato il 17 aprile 2018 in ragione del superamento del periodo di comporto, ha respinto il reclamo avverso la sentenza del Giudice del Lavoro del Tribunale di Milano che, sia nella fase sommaria, che in quella indotta dall’opposizione della lavoratrice, aveva disatteso la sua domanda di tutela nei confronti di quel tipo recesso.

Il Giudice dell’appello ha respinto anche le ragioni poste alla base del reclamo poiché il Tribunale aveva correttamente stimato che tutte le patologie sofferte dalla lavoratrice all’origine delle assenze, verificatesi nel periodo 20/4/2017- 31/3/2018 e ammontanti a 196 giorni, tali da legittimare il tipo di licenziamento promanato, non derivavano da alcuna condotta colposa dell’Azienda datrice di lavoro, considerando quindi a questo proposito la Corte territoriale, in linea con la giurisprudenza di legittimità, che:

“Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la st essa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. “.

La Corte territoriale rilevava, inoltre, che gli stati di malattia derivavano da ricoveri ospedalieri e a postumi di trattamenti clinico sanitari e chirurgici di varia natura, tra cui anche quello eseguito per la cura di un tunnel carpale, per i quali non era individuabile alcuna condotta colposa in capo alla Società per via di una serie di indici in grado di dimostrare che ciascuna delle malattie non dipendeva da erronee e/o imprudenti modalità di assegnazione dei compiti la vorativi di cassiera addetta alle vendite e di rifornimento degli scaffali , così come attribuiti alla lavoratrice presso l’esercizio commerciale cui era adibita.

La Corte è quindi pervenuta alla reiezione del gravame confermando i provvedimenti assunti in primo grado, senza trascurare che non aveva fondamento neppure il rilievo della reclamante in ordine all’omessa contestazione dei fatti che avevano dato luogo al licenziamento poiché il tipo di recesso esperito non richiedeva tale adempimento datoriale.

Con l’impugnazione la lavoratrice sostiene essere emerso, dopo la sentenza, un documento decisivo che non aveva potuto produrre in giudizio e ha specificato che si era trattato del provvedimento del 29 settembre 2020 col quale l’INAIL aveva riconosciuto, all’esito della visita collegiale, che l’insorgenza del tunnel carpale era da considerare alla stregua di una malattia di origine professionale determinata dai movimenti articolari posti in essere per l’espletamento di un certa tipologia dei compiti di servizio di competenza della lavoratrice, donde la necessità di acquisire tale risultanza documentale in vista di un diverso opinamento sulla sorte della fattispecie.

I Giudici del gravame non ritengono fondato il ricorso.

Il documento venuto alla luce dopo la sentenza, in particolare quella del Giudice del gravame azionato dalla lavoratrice, avrebbe dovuto far parte di quegli atti e di quelle prove che erano finalizzati a sostenere le ragioni della domanda mentre, in concreto, si è trattato di un documento a tutti gli effetti nato dopo le domande e dopo la sentenza.

In generale, l’insorgenza di una malattia professionale, non fornisce alcun riscontro sulla colpa della datrice di lavoro quando poi un simile dato era stato recisamente escluso con appropriate argomentazioni in seno alle pronunce del Tribunale e della Corte, argomentazioni che non possono essere trattate in legittimità.

Per tali ragioni la domanda viene respinta e la lavoratrice ricorrente viene condannata a rifondere alla Società datrice le spese di lite liquidate in euro 3.300,00, oltre accessori.

Avv. Emanuela Foligno

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