Non è vessatoria la clausola che nel contratto di assicurazione della responsabilità civile subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. claims made mista o impura)
Con sentenza del 6 maggio 2016, n. 9140, le Sezioni Unite della Cassazione hanno fatto chiarezza su una delle più delicate questioni in tema di assicurazioni contro la responsabilità civile; ovvero la validità/vessatorietà della clausola “claims made”. Inoltre, la Suprema Corte offre alcuni spunti di riflessione sulle polizze di assicurazione contro la responsabilità civile dei professionisti.
Il caso è il seguente: un paziente di una struttura ospedaliera chiedeva un risarcimento per effetto di danni che sarebbero stati arrecati da alcuni medici dell’ospedale, che lo aveva in cura. In giudizio vengono chiamate in causa le rispettive compagnie assicurative ai fini della manleva.
In primo grado, il Tribunale condannava la struttura ospedaliera al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento, dichiarando tutte le compagnie assicurative chiamate in causa tenute a manlevare il responsabile civile nei limiti della polizza.
La sentenza di primo grado veniva appellata dalle compagnie assicurative nella parte in cui il Tribunale di primo grado ha affermato la piena operatività della claims made, in quanto derogativa del primo comma dell’art. 1917 c.c., e quindi del principio in base al quale la copertura assicurativa si estende a tutti i fatti accaduti durante la vigenza del contratto.
Le compagnie appellanti sostennero, in particolare, che la manleva prevista in polizza valeva per le istanze risarcitorie presentate per la prima volta nel periodo di efficacia dell’assicurazione, purché il fatto che aveva originato la richiesta fosse stato commesso nello stesso periodo o nel triennio precedente alla stipula. Per questi motivi, la claims made era pienamente valida ed efficace, anche in assenza di una specifica sottoscrizione, in quanto volta semplicemente a delimitare l’oggetto del contratto e non a stabilire una limitazione di responsabilità.
Ebbene, la Corte d’appello, in riforma della pronuncia di prime cure, accoglieva il ricorso delle compagnie, riconoscendo la piena validità della clausola claims made inserita in polizza.
Giunta in Cassazione, la questione veniva rimessa alle Sezioni Unite per la sua particolare importanza.
La sentenza della Suprema Corte è interessante perché chiarisce – direi definitivamente – se la clausola “claims made” debba (o possa) considerarsi vessatoria e se, ed entro quali limiti, possa dirsi valida.
Come noto, essa è una clausola molto frequente nei contratti di assicurazione.
Schematizzando al massimo la variegata tipologia di clausole offerte dalla prassi commerciale, si possono comunque individuare due categorie:
a) le clausole c.d. miste o impure, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando il fatto illecito e la richiesta risarcitoria intervengono nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi (come nel caso affrontato dalla sentenza in commento), alle condotte poste in essere anteriormente (generalmente 2-3 anni prima della stipula della polizza);
b) Le clausole c.d. pure, che prevedono l’obbligo di manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.
Ciò premesso, va sottolineato come la questione circa l’ammissibilità delle clausole claims made, dopo essere stata oggetto di un acceso dibattito in dottrina e in giurisprudenza, pare essere stato risolta (a mio avviso, anche prima dell’odierna sentenza delle Sezioni Unite, oggi in commento).
L’orientamento giurisprudenziale maggioritario, infatti, sembra aver ormai abbracciato la tesi della validità di tali clausole escludendo che ad esse si possano applicare quei principi che reggono la materia dei contratti, stante la natura “atipica” delle polizze contenenti le claims made. La tesi contraria era stata invece sostenuta considerando che l’art. 1895 c.c. prevede la nullità di un contratto qualora il rischio non sia mai esistito o sia cessato di esistere prima della conclusione del contratto. Leggendo l’art. 1917 c.c. in combinato disposto con l’art. 1895 c.c., tali clausole avrebbero potuto ritenersi nulle in quanto fondanti la loro esistenza proprio su un evento anteriore, ma la cui pretesa risarcitoria avviene durante il periodo coperto da assicurazione.
Sul punto, ed a favore della tesi della validità, significativo è stato un intervento della Suprema Corte (Cass., 15 marzo 2005 n. 5624), secondo cui le clausole claims made non sono nulle, attesa la libertà e l’autonomia contrattuale delle parti di cui all’art. 1322 c.c.
Ebbene, le Sezioni Unite si inseriscono in questo interessante dibattito arricchendolo, a mio avviso, con nuovi spunti di riflessione.
Anzitutto, per sgombrare il campo da equivoci, le Sezioni Unite sottolineano come l’estensione della copertura alle responsabilità dell’assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto non faccia venir meno l’alea e con essa la validità del contratto, se al momento del raggiungimento del consenso le parti (e, in specie l’assicurato) ne ignoravano l’esistenza, potendosi, in caso contrario, opporre le responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 c.c. per le dichiarazioni inesatte o reticenti.
Inoltre, aggiungono sempre le Sezioni Unite, è bene tenere a mente che il rischio di aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza si concretizza progressivamente, e non si perfeziona finché il danneggiato manifesti la volontà di esercitare il diritto al risarcimento. Pertanto, anche tale elemento confermerebbe la tesi della validità.
Ciò che per la Cassazione pare quindi decisivo è stabilire se la claims made vada qualificata come limitativa della responsabilità (e quindi potenzialmente vessatoria ex art. 1341 c.c.), oppure se possa considerarsi attinente all’oggetto del contratto.
Per clausole limitative della responsabilità si tratterebbe di limitazioni alle conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che escludono il rischio garantito. Viceversa, attengono all’oggetto del contratto quelle che riguardano il contenuto e le limitazioni della garanzia assicurativa (ex multis, Cass. civ., 7 agosto 2014, n. 17783, Cass. civ., 7 aprile 2010, n. 8235).
Ad avviso delle Sezioni Unite, la clausola claims made c.d. impura non è una clausola limitativa della responsabilità, non andando ad incidere sul rischio garantito. Essa varrebbe piuttosto a delimitare l’oggetto del contratto, mirando a circoscrivere la copertura assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, stabilendo quali siano, a differenza dello schema previsto nell’art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili. In questo senso, essa sarebbe legittima in quanto rientrerebbe a pieno titolo “nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto”, entro i quali, a norma dell’art. 1905 c.c., l’assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall’assicurato.
L’invalidità può, però, derivare, secondo la Cassazione, dall’applicazione di norme a tutela del consumatore. E’ il caso del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. Codice del Consumo), secondo cui sono nulle quelle clausole che comportano uno “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. La norma è però applicabile soltanto ai consumatori e non ai “professionisti”. Sarebbero, invece, sempre valide le claims made c.d. “pure”.
Infine, le Sezioni Unite trattano un aspetto che si può definire “limitrofo” al tema centrale, e cioè la compatibilità delle claims made con la normativa in tema di copertura assicurativa obbligatoria dei professionisti (che per i sanitari è il d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con legge 8 novembre 2012, n. 189). La questione è importante e, sebbene non costituisca thema decidendum, pare opportunamente trattata dalla Suprema Corte, seppure, come detto, in limine agli argomenti principali.
Ebbene, ciò che sembra rilevante evidenziare è proprio l’incongruenza normativa messa in risalto dalle Sezioni Unite; infatti, da un lato, il professionista è tenuto a garantire una copertura assicurativa contro i rischi dell’attività professionale, e dall’altro lato, posta la piena validità della claims made, essa lo esporrebbe in realtà a dei buchi di copertura.
Tale “incongruenza”, dice la Cassazione, pone non pochi problemi soprattutto se si considerano gli interessi dei terzi (ad esempio, pazienti dei medici o, in altro ambito, clienti di avvocati, etc.), che possono vedersi diminuite le concrete possibilità di effettivo ristoro dei danni.
Le Sezioni Unite, in questo senso, ci aprono “giustamente” gli occhi. L’ultima parola, per questo, è affidata agli enti previdenziali di categoria ed agli enti collettivi di rappresentanza chiamati a fare chiarezza e proporre soluzioni nell’interesse, auspicabilmente, non solo dei professionisti rappresentati.
Avv. Marco De Nadai
Assistenza Legale
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