Con l’ordinanza in commento (n. 34037 del 12.11.2021 emessa dalla sezione 6° civile della Corte di Cassazione) si riprende, per ribadirlo ulteriormente, il principio per cui nelle controversie in materia di invalidità pensionabile devono essere valutati dal giudice l’aggravamento di malattia e le infermità sopravvenute incidenti sul complesso invalidante, verificatesi nel corso del procedimento, tanto amministrativo che giudiziario.

La decisione riguarda, come molte altre precedenti e successive, la natura e l’applicabilità dell’articolo 149 disp. att. C.P.C.

L’INPS sostiene ancora oggi, e nonostante i precedenti di legittimità contrari, la non applicabilità della norma citata ai procedimenti istaurati ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c. globalmente considerato, giudizi che – lo ricordiamo – riguardano la gran parte del comparto assistenziale e previdenziale.

Nelle memorie di costituzione e difesa dell’istituto è infatti ormai abituale rinvenire affermazioni e richieste che suonano così: in via pregiudiziale si chiede sin d’ora di non valutare la patologia incidente sul quadro sanitario sopravvenuto dopo la visita di primo accertamento. I casi di aggravamento devono essere posti alla attenzione dell’INPS attraverso specifica istanza di aggravamento, non trovando applicazione al contenzioso assistenziale l’articolo 149 disp. att. c.p.c.

La teoria propugnata dalla difesa pubblica viene – con la sentenza in commento – smontata ancora una volta dagli Ermellini con specifico riferimento ai giudizi istaurati ai sensi dell’art. 445 bis n. 6.

Ritiene la Corte che la natura impugnatoria del giudizio di opposizione ad ATP non preclude, a prescindere dalla effettiva confutazione dell’originario esito della CTU, la valutazione ex articolo 149 disp. att. c.p.c. dell’aggravamento della malattia, risultando tale valutazione presupposta dalla ratio della novella mirata ad una maggiore economicità dell’azione amministrativa, alla deflazione del contenzioso (ed) al congruo contenimento della durata delle controversie previdenziale ed assistenziali nei termini di ragionevolezza sanciti dalla CEDU.

Il suddetto principio – pur riferito esplicitamente nel caso di specie al giudizio di opposizione – consente a parere di chi scrive una riflessione sulla sua applicabilità anche alla precedente fase, normata e regolata dai precedenti commi del medesimo art.445bis c.p.c. proprio in ossequio all’ottica di economia processuale cui la stessa ordinanza fa esplicito riferimento.

Il legislatore del 2011 ha infatti attribuito ad un più rapido accertamento della condizione sanitaria valore risolutivo del considerevole numero di controversie prevedibili in materia (ricordiamo che la novella non è retroattiva) e ritenendo che l’introduzione di un modello procedimentale improntato ad un accertamento sommario, seguito da un giudizio a cognizione piena, solo eventuale potesse avere quegli effetti acceleratori e deflattivi da più parte auspicati, al momento dell’approvazione come a tutt’oggi.

In quest’ottica si conferma l’irrazionalità della disapplicazione dell’articolo 149 disp. att. C.P.C. che da sola varrebbe a vanificare gli effetti voluti e propugnati dalla riforma del 2011, minando alle radici la ratio dell’intera procedura e creando disarmonie nella tutela di diritti che sono di protezione sociale e, dunque, per loro natura universali.

L’INPS continua infatti a propugnare esclusivamente ed essenzialmente a proprio vantaggio la disapplicazione della norma, sulla quale si sono stratificate le pronunce di ogni giurisdizione, nazionale ed internazionale.

Secondo l’Istituto infatti eventuali aggravamenti sopravvenuti rispetto alla prima visita, dovrebbero farsi valere innanzi alle commissioni medico legali territoriali, con il risultato vantaggioso per lo stesso INPS ma francamente aberrante, di mantenere indefinitamente e perennemente aperta la fase amministrativa, su cui lo stesso istituto ha un controllo poco meno che assoluto oltre che interessato, agendo come noto anche come liquidatore delle prestazioni oltre che da accertatore.

Abbiamo definito un tale effetto aberrante, non a caso, tanto più per chi si muove in una situazione procedurale nella quale i termini di impugnazione sono estremamente ridotti ed i ricorsi amministrativi – anche ove tuttora esistenti quasi mai hanno valenza modificatoria di un giudizio sanitario e medico legale che rischia di consolidarsi in senso negativo a danno della parte debole di un giudizio che è tutt’altro che paritario.

La conferma in questa sede della validità processuale dell’articolo 149 disp. att. c.p.c. consente a margine della pronuncia in commento anche una riflessione sulla funzione del giudizio in opposizione ad ATPO che – lo ricordiamo a noi stessi – non prevede altre forme di tutela giurisdizionale relativamente ai profili di merito.

Infatti seguire la linea propugnata in sede difensiva dall’istituto implicherebbe secondo il dettato della stessa Suprema Corte l’abrogazione della norma stessa, effetto non ipotizzato né voluto o previsto da alcuna fonte normativa.

Se dunque devono essere considerati gli aggravamenti sopravvenuti in corso di causa ci si chiede se sia sufficiente, ad adempiere il dettato della norma la prassi – ormai consolidata in senso distorsivo – di disporre non il rinnovo ma la mera integrazione della consulenza da parte dell’ausiliario già nominato nella prima fase, nella stragrande maggioranza dei casi, per esperienza professionale vissuta, senza il rinnovo delle operazioni peritali ma esclusivamente in base alla documentazione depositata.

Questa la prassi, a tacere di quando il procedimento si chiude direttamente, senza alcuna considerazione delle argomentazioni svolte e senza disporre né rinnovo né chiarimenti.

Sembra utile rammentare che la fase c.d. sommaria del giudizio si chiude con la proposizione del dissenso, nei tempi stabiliti dallo stesso art. 445 bis e dal Giudice del Lavoro.

Anche volendo prescindere dalla considerazione della autonomia formale dei giudizi –provata e testimoniata dalla differenza di ruolo generale- vi è da chiedersi come debba considerarsi in termini di terzietà e serenità il giudizio di un ausiliare che sia chiamato a prendere posizione sulle critiche mosse al suo stesso lavoro, circostanza che si ritiene infici la validità del giudizio reso in sede di opposizione un procedimento che è o dovrebbe essere a cognizione piena e non condizionata.

Si ritiene che ancora un volta siffatto condizionamento vada in danno – ancora una volta – della parte economicamente e processualmente più debole del giudizio, che ha semplicemente applicato la normativa per come concepita, comportamento ed effetti che appaiono non solo poco coerenti rispetto alla normativa, ma anche profondamente ingiusti e distorsivi in quanto il consulente laddove venga chiamato a rendere integrazione certamente avrà, sul caso in discussione, un idea già formata dipendente dal parere precedentemente espresso, in una fase di giudizio che dovrebbe essere già conclusa, di fatto condizionando anche l’autonomia e l’indipendenza del magistrato chiamato a decidere della controversia .

Siffatta prassi induce a mettere in discussione – anche in base a quanto già argomentato da chi scrive – su queste stesse pagine, la figura ed al ruolo dell’ausiliare del giudice in questa tipologia di giudizi, elementi tali da impattare sulla validità complessiva della procedura civile, cosi come strutturata, nel suo complesso ad un decennio dalla novella del 2011, e con nuove previsioni “deflattive” all’orizzonte del nuovo anno.

Avv. Silvia Assennato

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