Protesi all’anca difettosa e perdita dell’uso dell’arto

0
protesi-all'anca-difettosa

Dopo 5 anni dalla installazione della protesi all’anca, il paziente viene informato dalla ASL veneta che la protesi all’anca era difettosa. Tribunale e Corte di appello rigettano la domanda risarcitoria. La Cassazione conferma (Corte di Cassazione, III civile, 20 novembre 2024, n. 29839).

I fatti

L’intervento di protesi all’anca veniva effettuato nel 2007 presso l’Ospedale di Jesolo. Decorsi 5 anni il paziente viene contattato dalla stessa ASL in quanto la protesi installata era difettosa. Per tale ragione il paziente decide di sottoporsi nel 2013 a un secondo intervento, svoltosi presso l’Ospedale di Pordenone, nel quale la protesi originariamente installata era stata rimossa e totalmente sostituita.
Asserisce il paziente di aver sofferto di problemi neurologici e di essere affetto da miopatia, tale per cui aveva perso l’uso dell’arto sinistro.

Il Tribunale rigetta la domanda e condanna il paziente alla rifusione delle spese di lite sia nei confronti della ASL che della terza chiamata in causa. Con decisione 23/2/2022 la Corte di appello di Venezia rigetta il gravame confermando il primo grado.

I risultati della CTU

I Giudici di appello hanno osservato che l’espletata CTU aveva dimostrato la correttezza dell’intervento chirurgico svoltosi nel 2007, sia in ordine al rispetto delle linee-guida in materia che dal punto di vista dell’esecuzione dell’intervento chirurgico, nonché in relazione al tipo di protesi inserita. Anche il secondo intervento di revisione della protesi del 2013 risultava eseguito in modo del tutto corretto.

All’esito della CTU (la quale aveva riconosciuto al paziente una percentuale di invalidità permanente dell’ordine del 2-3%), il punto centrale affrontato era stato quello relativo alla possibilità che la protesi poi rimossa avesse in sé una qualche percentuale di tossicità. La CTU, esaminando il rischio da sospetta intossicazione da ioni metallici, era giunta alla conclusione che i livelli di concentrazione di cromo e cobalto rinvenuti negli esami del sangue del paziente avevano evidenziato una concentrazione troppo bassa per essere in grado di determinare effetti sistemici con avvelenamento da ioni.

La sintomatologia evidenziata dal paziente, che lamentava una cervico-brachialgia e il disagio psicologico derivante dalla consapevolezza di essere portatore di una protesi potenzialmente tossica, era riconducibile, in astratto, ad una pluralità di possibili cause autonome. E comunque i sintomi erano regrediti dopo alcune sedute di fisioterapia, facendo piuttosto pensare ad un’eziologia di natura muscolo-scheletrica.

Ragionando in tal senso i Giudici dell’appello concludono che la presunzione di responsabilità della struttura ospedaliera di cui all’art. 1218 cc. era stata superata, non essendovi prova del fatto che la modestissima invalidità permanente poteva derivare dall’operato dei medici e non essendo stata dimostrata neppure l’intossicazione da ioni metallici.

Il paziente soccombente in entrambi i giudizi di merito si rivolge alla Corte di Cassazione, che rigetta anch’essa.

L’intervento della Cassazione

Sostiene il ricorrente che la stessa ASL del Veneto orientale aveva suggerito la sostituzione della protesi con un secondo intervento chirurgico, né il CTU aveva messo in dubbio l’indicazione alla sostituzione. Ne consegue che l’esistenza di una situazione clinica che comporta indicazione all’intervento chirurgico costituirebbe violazione dell’art. 32 Cost., trattandosi comunque di una malattia in sé, senza che i termini della vicenda vengano modificati dal fatto che l’installazione della prima protesi sia avvenuta in modo corretto, perché la necessità di rimuoverla dimostrerebbe che essa era “dannosa o pericolosa”.

Quanto lamentato non è ammissibile.

Nella motivazione della sentenza impugnata, la quale si è riportata alle conclusioni della CTU, non si è mai parlato di “malattia”. Il Giudice di merito ha accertato che “le due protesi furono installate a regola d’arte e senza problemi; anzi dalla motivazione della sentenza non emerge che il paziente abbia fornito la prova certa del fatto che il secondo intervento fosse proprio necessario. Una volta appurato che i livelli di cromo e cobalto erano irrisori, la scelta di sottoporsi al secondo intervento è da ritenere, in ultima analisi, una decisione liberamente assunta dal paziente”. Senza considerare che il problema dell’esistenza di una malattia tale da imporre il secondo intervento potrebbe essere anche una questione nuova.

La tossicità della protesi all’anca difettosa

Venendo alla potenziale tossicità della protesi, il paziente sostiene di non essere stato debitamente informato. Il ricorrente insiste sul fatto che i medici furono inadempienti non avendolo informato né del tipo di protesi che sarebbe stata installata, né dei conseguenti rischi connessi.

Questa censura pone una questione nuova, perché la causa è stata promossa e si è svolta come causa di responsabilità professionale fondata sul presupposto della negligente gestione dell’intervento a causa dell’installazione di una protesi contenente cromo e cobalto. E in citazione non è stata invocata la violazione del principio del consenso informato, o la lesione del diritto all’autodeterminazione. E neppure in appello la questione è stata formalmente posta.

Oltre a questo il paziente non si confronta con la ratio decidendi la quale ha stabilito che l’esclusione della responsabilità medica e la concreta individuazione di una causa alternativa alla modestissima invalidità riconosciuta (del 2-3%) rendevano superflua ogni indagine sul punto.

Comunque sia, stigmatizza la Cassazione, il paziente nulla dice sulla scelta “alternativa” che avrebbe potuto e voluto intraprendere. Nel senso che non è dato sapere, ammesso, per ipotesi, che vi sia stata violazione del principio di autodeterminazione, quale avrebbe potuto essere la scelta diversa a disposizione del paziente.

I Giudici di merito hanno escluso il nesso di causalità tra l’installazione della prima protesi e i danni subiti dal paziente, riconducendo i modesti postumi lamentati ad una patologia diversa (muscolo-scheletrica), per cui non sussiste un problema di riparto dell’onere della prova. La causa è stata decisa in positivo, escludendo ogni responsabilità dei sanitari e non facendo applicazione del criterio residuale dell’onere della prova

Il ricorso, pertanto, viene rigettato.

Avv. Emanuela Foligno

Leggi anche:

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui