Condannata l’ASL di Chioggia a risarcire oltre 2 milioni di euro ai familiari della bambina, riconosciuto anche il danno futuro a titolo di assistenza personale. La Cassazione si pronunzia sulla aspettativa di vita del macroleso da errore sanitario (Corte di Cassazione, III civile, 19 novembre 2024, n. 29815).
I fatti
I genitori e i nonni della bambina ritengono l’ASL di Chioggia responsabile dei danni patiti dalla neonata a causa dell’asfissia neonatale sofferta durante il parto e alla mancata tempestiva esecuzione del parto cesareo.
Il Tribunale accoglie parzialmente la domanda e, riconosciuta la sussistenza di una colpa professionale da parte di tutti gli operatori sanitari che avevano assistito la gravida durante il parto, condanna la AUSL. I risarcimenti sono così suddivisi: in favore dei genitori, in qualità di rappresentanti della minore dell’importo di €1.319.368,50; in proprio, dell’importo di €170.000,00 per ciascuno; in favore dei quattro nonni, della somma di €24.000 per ciascuno.
La Corte di appello di Venezia riforma la decisione condannando la AUSL al pagamento in favore della vittima €506.458,10; ai genitori a titolo di danno non patrimoniale, la somma di €250.000 ciascuno; ai medesimi genitori le ulteriori somme di €70.000 e di €220.000 a titolo di assistenza personale svolta e da svolgere in futuro; ai quattro nonni la somma di €100.000 ciascuno. Per il resto conferma la sentenza impugnata.
La Corte veneta ha innanzitutto confermato l’impianto della sentenza del Tribunale in ordine al riconoscimento dell’inadeguatezza del comportamento dei sanitari in occasione della nascita della bambina e dell’esistenza del nesso di causalità tra questo e il quadro di encefalopatia ipossico-ischemica patito dalla stessa. Patologia della quale la Corte d’appello ha dichiarato l’irreversibilità, con un grado di invalidità permanente, a carico della minore, pari al 92,50%.
Il calcolo del risarcimento danni
Venendo al quantum risarcito alla bambina, alla luce della CTU integrativa appositamente svolta in primo grado, la Corte veneta ha ribadito, in considerazione del tipo di patologia sofferta dalla vittima e dello specifico indice di gravità, che la sua aspettativa di vita si poteva ritenere di circa 30 anni. Si trattava, secondo la Corte, di una valutazione non criticata neppure dal CT di parte e non suscettibile di modifica sulla base dello studio australiano riportato nell’atto di appello, troppo generico nelle conclusioni. La danneggiata era ancora in vita al momento della decisione di appello, per cui “l’invalidità permanente riconosciuta è stata parametrata non sull’aspettativa di vita, come indicata dal Consulente, ma all’aspettativa di vita massima”.
Quindi è stato svolto un nuovo conteggio perché la sentenza di primo grado l’aveva liquidato assumendo come parametro l’aspettativa di vita fino a 30 anni di età, erroneamente non valutando che tale minore aspettativa era stata “direttamente imputata alla condotta negligente dei sanitari”.
La Corte ha stabilito che, in considerazione del tipo di lavoro svolto dai genitori, si doveva presumere che la bambina “si sarebbe affacciata al mondo del lavoro all’età di 20 anni”. Assumendo come parametro il triplo della pensione sociale, applicando il coefficiente di capitalizzazione di venti anni di età (34,677) e detratto il 20 % di scarto tra vita fisica e vita lavorativa, la sentenza è pervenuta al risultato finale di €506.458,10.
Il danno da lesione del rapporto parentale
La sentenza ha poi riconosciuto ai prossimi congiunti anche il danno derivante dalla lesione del rapporto parentale argomentando che la bambina “presenta una gravissima condizione di salute fin dalla nascita, tale da richiedere l’assistenza continua dei suoi cari e da compromettere in modo molto significativo la possibilità di un sereno rapporto familiare, essendo la minore incapace di gestirsi e curarsi autonomamente, di svolgere un’attività lavorativa autonoma e di sviluppare ordinarie relazioni sociali e familiari”. Ergo, ha stabilito che l’attività di assistenza viene prestata dai genitori e anche dai nonni, non solo quando i primi sono al lavoro, ma anche durante i fine settimana, liquidando equitativamente ai genitori la somma di €250.000 ciascuno e ai nonni quella di €100.000 ciascuno.
L’ASL impugna la decisione sollecitando il vaglio della Corte di Cassazione, che rigetta.
La ricorrente censura la decisione per aver liquidato il danno biologico in favore della vittima assumendo come parametro quella della normale durata della vita, in tal modo non considerando che, in base all’espletata CTU, la minore aveva e ha un’aspettativa di vita fino a 30 anni. Poiché il danno biologico è stato, da sempre, liquidato in via equitativa, più breve è l’aspettativa di vita e più ridotto deve essere il danno risarcibile. E per giurisprudenza pacifica, tale danno deve essere parametrato all’effettiva durata della vita ovvero alle reali prospettive di vita del danneggiato.
L’intervento della Cassazione
Quanto affermato dalla Asl non è corretto in quanto con la sentenza 27 settembre 2021, n. 26118, è stato osservato che tra i postumi permanenti causati da una lesione alla salute “rientra anche il maggiore rischio di una ingravescenza futura” ed ha inquadrato tale forma di lesione nella figura del c.d. danno latente. Tale danno consiste nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l’infermità residuata all’infortunio possa improvvisamente degenerare in un futuro tanto prossimo quanto remoto, e differisce dal mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell’infermità. Richiamando ulteriori precedenti in argomento, la decisione ha osservato che “il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus costituisce per la vittima una lesione della salute”.
Detto in altri termini, ogni malattia con postumi permanenti può naturalmente evolversi nel senso di un aggravamento. Ma se la malattia è talmente grave da diventare essa stessa la causa di una prognosi di vita drammaticamente abbreviata il danno latente è in sé una forma di danno alla salute.
La bambina, infatti, a causa del danno da negligenza dei sanitari, ha riportato un quadro patologico così pesante che la sua aspettativa di vita, per come accertata dalla CTU, si è ridotta a circa trent’anni.
Liquidazione del danno biologico
La questione che la Cassazione deve scrutinare è, pertanto, se il danno biologico debba essere liquidato sulla base di quella che è l’aspettativa di vita media del danneggiato oppure sulla base dell’aspettativa di vita concreta quale consegue alla gravità della patologia determinata dalla responsabilità dei sanitari.
La risposta della Corte Suprema dà continuità a quanto già affermato con la sentenza n. 26118 del 2021. Ovverosia: se il rischio “di contrarre malattie in futuro o di morire ante tempus, a causa dell’avverarsi del rischio latente, costituisce un danno alla salute, di esso si deve tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, secondo le indicazioni della medicina legale”.
Questo significa che il CTU, chiamato a valutare la percentuale di invalidità permanente sulla quale calcolare il danno biologico, dovrà incrementare quel valore proprio per tener conto del rischio latente; facendo così, la liquidazione potrà avvenire tenendo conto della minore speranza di vita in concreto, e non di quella media.
La Cassazione si pronunzia sulla aspettativa di vita
Ma se, al contrario, il CTU non avesse considerato il rischio latente nel calcolare la percentuale di invalidità permanente, allora di quel pregiudizio “dovrà tener conto il Giudice, maggiorando la liquidazione in via equitativa: e nell’ambito di questa liquidazione equitativa non gli sarà certo vietato scegliere il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima: e dunque in base alla vita media nazionale, invece che alla speranza di vita del caso concreto” (così ancora la sentenza n. 26118 del 2021).
Questo sistema di calcolo, agganciato alla durata della vita media nazionale, sarà possibile nei casi più gravi, e cioè quando massimo è il divario tra la vita attesa secondo le statistiche mortuarie e la concreta speranza di vita residuata all’infortunio. Ciò è proprio quanto si è verificato nel caso in esame perché una neonata è venuta alla luce con un complesso di patologie così gravi da ridurre la sua aspettativa di vita al breve tempo di trent’anni.
La correttezza della decisione di Appello
La Corte di appello ha quindi deciso correttamente. Dalla censura della ASL non è dato comprendere se il CTU abbia o meno tenuto conto, nel calcolo della percentuale di invalidità permanente, del rischio latente. La Suprema Corte, però, è del parere che il quadro patologico evidenziato dalla sentenza impugnata, caratterizzato dalla presenza di gravissime patologie, del tutto prive di ogni possibilità di guarigione, cui si collega un’elevatissima percentuale di invalidità permanente (92,5 %) siano di per sé elementi decisivi per respingere la censura, perché si è in presenza di un divario massimo tra le statistiche di vita media e la concreta aspettativa di vita della bambina.
In conclusione viene affermato “non è pensabile che in una situazione del genere, nella quale ci sono ridottissimi margini di aumento della percentuale di invalidità, il danneggiante possa trarre addirittura vantaggio dall’incredibile gravità del danno arrecato”.
Avv. Emanuela Foligno