La violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali, determinata dal colpevole ritardo diagnostico di patologie terminali, coincide con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale

In tema di danno alla persona, conseguente a responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in quanto essa nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni di scegliere “cosa fare”, nell’ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche, in vista e fino a quell’esito. La violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali, determinata dal colpevole ritardo diagnostico di patologie terminali, non coincide con la perdita di “chances” connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere, ma con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa. In caso di colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né nella perdita di “chance” di guarigione, ma include la perdita di un “ventaglio” di opzioni con le quali scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita, che determina la lesione di un bene reale, certo – sul piano sostanziale – ed effettivo, apprezzabile con immediatezza, qual è il diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali; in tale prospettiva, il diritto di autodeterminarsi riceve positivo riconoscimento e protezione non solo mediante il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, mediante la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche attraverso la mera accettazione della propria condizione. E’ l’orientamento giurisprudenziale confermato dalla Cassazione con l’ordinanza n. 27682/2021. Gli Ermellini, nello specifico si sono pronunciati sul caso degli eredi di una donna, morta per una leucemia linfatica, che avevano agito in giudizio nei confronti di medici e strutture sanitarie presso cui la propria congiunta era stata in cura, al fine di sentirne accertare la responsabilità in solido per omessa diagnosi e adeguate cure della patologia risultata fatale, con conseguente condanna dei convenuti al risarcimento di tutti i danni subiti in conseguenza del decesso.

A fondamento della domanda, i familiari deducevano: che la signora, lamentando prurito intenso, flogosi delle vie aeree e spossatezza, si era ricoverata il 22 maggio 2002 presso una struttura privata, su consiglio del proprio cardiologo di fiducia; che era stata dimessa dopo due giorni con diagnosi di distoiridismo, dilipidemia, osteoporosi significativa, intolleranza ai carboidrati; che, persistendo la sintomatologia, si era rivolta al reparto di ematologia di un ospedale di Roma, dove era stata ricoverata in data 6 marzo 2003; che a seguito di accertamenti veniva dimessa con diagnosi di linfadenopatia; che il 12 maggio 2003 si ricoverava nuovamente ricoverata presso il nosocomio, ma che, nonostante nuovi accertamenti, non le veniva diagnosticata alcuna malattia; che, lo stesso giorno della dimissione, si rivolgeva ad una diversa struttura ove, a seguito di esame istologico, le veniva diagnosticato linfoma a piccoli linfociti in trasformazione verso forma prolinfocita; che la paziente decideva a questo punto di curarsi all’estero, in Texas, dove le veniva riscontrata una diffusa linfoadenopatia dell’addome, al collo, ad entrambe le ascelle e un linfoma metastatico al midollo, con uno stadio della malattia al quarto livello avanzato; che, sottopostasi a chemioterapia presso il centro statunitense, con numerosi ricoveri dal 2003 all’agosto 2006, dopo aver raggiunto la remissione della malattia, la patologia si ripresentava e, nel 2007, sopraggiungeva il decesso.

Secondo la parte attrice, i medici delle strutture sanitarie della Capitale avrebbero omesso una tempestiva diagnosi della leucemia che avrebbe consentito di approntare le necessarie terapie, con conseguente responsabilità contrattuale degli stessi medici e delle strutture.

A seguito di espletamento di ctu, il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda, rilevando che nella condotta dei vari medici non era riscontrabile alcuna negligenza poiché, considerato il tipo di malattia (linfoproliferativa), i medici che visitarono la paziente presso la struttura privata non avevano elementi sufficienti per una corretta diagnosi, mentre quelli che la visitarono in ospedale non furono posti in grado di completare gli accertamenti diagnostici poiché la signora decise di curarsi altrove.

La Corte d’appello di Roma disposto il rinnovo della ctu, nominando due specialisti, uno in medicina legale e l’altro in ematologi, aveva rigettato l’impugnazione, confermando la sentenza di primo grado. Nel merito, il Giudice di secondo grado, sulla scorta della perizia, pur riconoscendo che la condotta dei vari medici che ebbero in cura la paziente era stata censurabile sotto vari profili, aveva ritenuto insussistente il nesso di causalità tra tale condotta e l’evoluzione della malattia. Infatti, quanto ai medici che visitarono la presso la casa di cura privata nel maggio 2002, il Collegio aveva osservato che, secondo gli ausiliari, pur essendo stata corretta la diagnosi al momento della dimissione, i sanitari avrebbero dovuto indicare alla paziente di eseguire, a distanza di tre o quattro mesi, controlli ecografici dei linfonodi e, nel caso di persistenza dell’obiettività riscontrata, di consultare un ematologo. Quanto alla condotta dei medici dell’ospedale, la Corte aveva riportato l’osservazione dei ctu, secondo cui dagli esami ematologici eseguiti emergevano dati che avrebbero dovuto indurre a disporre ulteriori indagini citogenetiche, le quali avrebbero potuto condurre alla diagnosi della leucemia. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che tale considerazione dovesse essere letta tenendo conto che l’esame completo non era ancora stato eseguito per via del farmaco cortisonico che la paziente aveva assunto e che comunque i suddetti dati mostravano che la malattia era ad uno stadio tale per cui, secondo le linee guida internazionali, era consigliabile attendere l’evoluzione della stessa prima di impostare la terapia. In ogni caso, i ctu, facendo riferimento alle linee guida, avevano affermato l’insussistenza del nesso causale in quanto, prima di scegliere la terapia, la paziente sarebbe dovuta rimanere in fase di osservazione e comunque il ritardo della diagnosi non aveva inciso sull’evoluzione della malattia, dal momento che la donna, a maggio 2003, quando aveva ricevuto la corretta diagnosi, presentava una linfocitosi assoluta sovrapponibile quella riscontrata all’epoca del primo accesso in ospedale nel marzo 2003. Pertanto, non avrebbe trovato riscontro scientifico la tesi sostenuta dagli appellanti che una più tempestiva diagnosi da parte dei medici convenuti avrebbe potuto influire il decorso della malattia.

Infine, la Corte di merito ha respinto anche la domanda di risarcimento del danno per perdita di chance formulata dagli attori, considerato che i ctu avevano escluso, sulla base di argomentazioni scientifiche, che un ritardo di alcuni giorni potesse aver avuto incidenza sullo sviluppo della malattia e quindi sull’efficacia delle cure.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, i ricorrenti lamentavano, tra gli altri motivi, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, costituiti dalle produzioni documentali attestanti le condizioni cliniche della paziente e lo stato di avanzamento della malattia al momento del ricovero nel centro statunitense, nonché la “violazione dei principi regolatori del giusto processo” per aver la sentenza condiviso l’esclusione del diritto al risarcimento del danno affermata dai CTU illogicamente e con eccesso di potere rispetto all’incarico ricevuto. In particolare, a loro dire, sarebbe mancata la risposta, da parte dei giudici di merito, alla richiesta di risarcimento dei danni subiti in proprio e iure successionis a causa della lesione del diritto all’autodeterminazione della congiunta determinata dal colpevole ritardo diagnostico.

Su tale ultimo aspetto gli Ermellini hanno ritenuto di accogliere il ricorso. Poiché dall’esame diretto degli atti emergeva inequivocabilmente che sin dall’atto introduttivo fosse stato chiesto il risarcimento, tra gli altri danni, anche di quello personale subito dalla paziente che, ove avesse ricevuto la diagnosi in tempi anticipati, avrebbe potuto esercitare il diritto all’autodeterminazione, la dedotta violazione di legge ricorreva, nel caso di specie, in quanto la Corte di merito non ha valutato la risarcibilità di tutti i danni allegati.

La redazione giuridica

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