Sovrastima di tumori inerti, effetti collaterali delle terapie per curarli e falsi positivi porterebbero a ritenere l’utilità derivante dall’accertamento più che marginale

Il dubbio arriva da uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine.  Lo screening per il cancro della prostata effettuato tramite test sul sangue per l’antigene prostatico specifico (Psa) potrebbe essere più nocivo che utile. Secondo Paul Pinsky, del National Cancer Institute, National Institutes of Health (Stati Uniti), autore principale della ricerca “è improbabile che il beneficio netto sia più che marginale, mentre i danni sono provati e sostanziali”.
Pinsky si riferisce, in particolare, a due grandi studi sullo screening con Psa – lo European Randomized Study of Screening for Prostate Cancer (Erspc) e il Prostate, Lung, Colorectal, and Ovarian Cancer Screening Trial (Plco) – in base ai quali  sembrerebbe ragionevole rinunciare allo screening di massa.  Anche la US Preventive Services Task Force (Uspstf), peraltro, ha sconsigliato nel 2012 la routine dello screening basato sul PSA per gli uomini sani, indipendentemente dall’età.
Si stima che su 1000 uomini che i sottopongono allo screening diverse volte nell’arco di 10 – 15 anni, sia possibile evitare circa una morte per cancro. D’altro canto però occorre tener presente che il test con Psa, tra tutti i test di screening, è caratterizzato da una sovrastima di tumori inerti, non letali. Tale circostanza, combinata con la frequenza e la gravità degli effetti collaterali delle terapie standard utilizzate per il trattamento di tali tumori, pongono la questione circa l’opportunità dell’accertamento. Senza contare l’ansia che può derivare da un falso positivo, così come lo svolgimento di biopsie esami non necessarie.
I dati parlano di un incremento del 63% dell’incidenza del cancro alla prostata dal 1987, anno di introduzione dello screening con Psa, al 1993: Tale tendenza è proseguita anche negli anni successivi. Solamente con la pubblicazione delle nuove linee guida USPSTF del 2012, che sconsigliavano di sottoporsi al test, c’è stata un’inversione di tendenza. Secondo gli autori dello studio, dunque, “c’è una necessità critica di strategie per ridurre gli oneri connessi con la diagnosi di malattia inerte, combinando la possibilità di evitare di diagnosticarla in primo luogo e quella di classificarla in maniera precisa come non richiedente alcun ulteriore follow-up o trattamento, pur mantenendo tutti i benefici rispetto alla mortalità per gli uomini con malattia aggressiva”
 
Fonte: N Engl J Med. 2017. doi: 10.1056/NEJMsb1616281  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28355509

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