Aveva ignorato le raccomandazioni delle linee guida la anestesista condannata per omicidio colposo dopo il decesso di una paziente

Un caso di malasanità diventa l’occasione per riflettere ulteriormente sulla nuova legge sulla responsabilità medica. La vicenda riguarda una anestetista condannata per omicidio colposo per non aver controllato la corretta ossigenazione del paziente durante un intervento, ignorando – di fatto – le raccomandazioni delle linee guida.
Nel caso di specie, la negligenza dell’ anestesista condannata per omicidio colposo deve considerarsi provata anche se il decesso è avvenuto quasi un mese dopo l’intervento.
A dirlo è stata una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 33770/2017, che ha respinto il ricorso dell’anestesista condannata per omicidio colposo, dopo la morte di una paziente dovuta al tempo eccessivo in cui era rimasta in deficit di ossigeno durante un’operazione al setto nasale. L’anestesista aveva inoltre sottovalutato la segnalazione di allarme del macchinario.
Il medico ha negato con forza l’esistenza di un nesso causale tra la sofferenza respiratoria della paziente e la sua morte per insufficienza respiratoria, avvenuta 25 giorni dopo intervento. L’imputata aveva infatti parlato di una serie di infezioni sopraggiunte nel reparto di terapia intensiva, escludendo in tal modo il nesso causale con l’operazione.
Secondo la difesa, l’intempestiva maggiore ossigenazione poteva non essere stata la sola ragione del decesso, e quindi il comportamento del medico doveva essere inquadrato nella colpa lieve, come previsto dalla legge Balduzzi (articolo 3 della legge 189/2012).
La difesa ha inoltre contestato il rifiuto dei giudici di merito al confronto tra il consulente del Pubblico ministero e quello di parte, confronto che – sempre secondo gli avvocati della anestesista condannata per omicidio colposo – avrebbe potuto ribaltare le sorti del processo. La Cassazione ha però chiarito che, per la giurisprudenza di legittimità, né i confronti né gli accertamenti del perito hanno un carattere decisivo.
I giudici hanno inoltre osservato, in merito, che il consulente di parte aveva dalla sua circostanze “vaghe”, mentre il perito del Pm puntava sugli esami per dimostrare la conseguenza fatale della prolungata carenza di ossigeno.
Inoltre, è stato sottolineato come le infezioni non possano “costituire il rischio nuovo e incommensurabile del tutto incongruo rispetto alla condotta originaria al quale la giurisprudenza annette valore interruttivo del rapporto di causalità”.
Infatti, i giudici hanno ricordato che la “infezione nosocomiale” è uno dei rischi tipici che va messo in conto quando si resta un tempo non breve nei reparti di terapia intensiva, dove queste “complicazioni” sono tutt’altro che rare a causa delle condizioni di grave deperimento dei pazienti.
Alla luce di tali considerazioni, la “colpa lieve” non c’è, in quanto il comportamento della anestesista condannata per omicidio colposo è stato gravemente negligente. Ma anche volendo prescindere dal grado di colpa, l’imputata ha ignorato le linee guida che consentono al sanitario di non rispondere penalmente grazie alla colpa lieve.
Per i giudici, pertanto, la ricorrente è colpevole anche alla luce della nuova legge sulla responsabilità medica, in quanto l’articolo 590-sexies introdotto dall’articolo 6 della legge 24/2017 consente di non punire il medico che rispetta le raccomandazioni delle linee guida anche quando lo fa con imperizia.
 
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