Assicurazioni sanitarie e chirurgia. Cosa dice la Cassazione

0

La rimozione della lesione tumorale con tecniche innovative e’ un  “intervento chirurgico” ai fini dell’assicurazione sanitaria? Ecco cosa dice la Cassazione

Sebbene in Italia le assicurazioni sanitarie non abbiano ancora raggiunto il livello di diffusione di altri paesi, le note inefficienze del nostro servizio sanitario nazionale spingono comunque un numero elevato di soggetti a stipulare polizze finalizzate ad ottenere il rimborso (o, meglio ancora, il pagamento “diretto”) delle spese sostenute presso strutture private per la erogazione di prestazioni sanitarie, interventi chirurgici compresi.

L’estensione della copertura assicurativa, in tali casi, non è sempre di agevole comprensione, in quanto oltre alla clausola generale contenente l’oggetto del rischio assicurativo, nelle polizze vengono poi previste una serie di “esclusioni” che, in concreto, finiscono per restringere l’ambito delle prestazioni (soprattutto di tipo chirurgico) rimborsabili ai sensi di polizza.

Ne deriva un contenzioso giudiziale abbastanza frequente, originato dal fatto che il contraente/assicurato e gli altri assicurati (generalmente i componenti del nucleo familiare del contraente) richiedano la copertura per prestazioni che invece, secondo l’impresa assicuratrice, ricadendo tra quelle escluse ai sensi di contratto, non possono essere fornite.

In questo quadro si inserisce una recente sentenza della Cassazione (Cass. civ., 20 agosto 2015, n. 17020) che ha optato per un’interpretazione favorevole al contraente, rispetto a quella avanzata dall’assicurazione e avallata dalla sentenza della Corte di appello, in una ipotesi di notevole interesse, in quanto relativa alla esatta interpretazione da attribuire alla espressione “interventi chirurgici” ai fini della esatta individuazione del rischio assicurato.

Il dilemma interpretativo attiene, in estrema sintesi, alla equiparabilità degli interventi terapeutici (o almeno di buona parte di essi) ai quali l’assicurato si era sottoposto, eseguiti con tecniche innovative e microinvasive, a quelle tradizionali (con utilizzazione del bisturi e incisione dei tessuti), alle quali l’assicuratore pretendeva di restringere la nozione di “intervento chirurgico”, oggetto del rischio assicurato.

Questi i fatti e lo svolgimento dei due gradi processuali di merito che hanno poi condotto alla pronuncia della Corte di legittimità.
Il soggetto assicurato – un avvocato – in virtù di una polizza stipulata per suo conto dalla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense con primaria impresa assicuratrice conveniva in giudizio detta impresa per ottenerne la condanna al pagamento della prestazione dovuta, avente ad oggetto le prestazioni mediche da lui sopportate in occasione di vari interventi chirurgici ai quali si era sottoposto all’estero, per adenocarcinoma al fegato ed alla prostata.

Il Tribunale adito accoglieva la domanda e condannava l’impresa assicuratrice al pagamento dell’indennità assicurativa.
L’istituto assicuratore impugnava però la sentenza e, all’esito di questo, la Corte di appello competente riteneva di rigettare la domanda proposta dall’avvocato/assicurato, condannandolo per giunta al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. A questo punto l’assicurato proponeva ricorso per cassazione, che veniva deciso appunto con la sentenza che qui sinteticamente viene commentata.

Il ricorso si basava su tre motivi, strettamente connessi, in virtù dei quali l’assicurato lamentava erroneità e violazioni di legge da parte della sentenza di appello per avere escluso gli interventi da lui subiti dal novero dei “grandi interventi chirurgici” di cui alla polizza, oltre che per averli esclusi anche rispetto alla categoria dei “gravi eventi morbosi”, invece garantiti ai sensi di polizza.

Censurava poi la sentenza della Corte di Appello anche per il fatto di non aver esplicitato le ragioni per le quali aveva ritenuto che gli interventi subiti al fegato (per la precisione, ed è un questo un dato, come vedremo, di importanza estrema ai fini della decisione della Cassazione, uno di “termoablazione percutanea” e due di “chemioembolizzazione”) ed alla prostata (anche qui, precisamente, un intervento di “ablazione radiochirurgica di adenoma maligno”) non rientrassero nelle prestazioni chirurgiche assicurate ai sensi di polizza, in quanto questa – a prescindere dal fatto che l’intervento chirurgico venisse eseguito con tecnica tradizionale piuttosto che con tecniche più evolute di natura radiologica – faceva comunque espresso riferimento alla ricomprensione in polizza delle voci “resezioni epatiche; epatotomia; adenomectomia da neoplasia maligna; prostatectomia radicale”.

Precisava ancora nel ricorso come la corte di appello non avesse esplicitato neppure le ragioni per le quali aveva ritenuto che neppure il trapianto di fegato, al quale purtroppo l’assicurato si era poi dovuto sottoporre, rientrasse tra le prestazioni chirurgiche assicurate, e ciò sebbene un trapianto comportasse necessariamente l’incisione dell’organo malato al fine del suo espianto e della sua sostituzione.

Infine, sempre nel ricorso, l’assicurato deduceva come l’esclusione degli interventi dalla copertura assicurativa rappresentasse una violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale di cui, in particolare, agli artt. 1363, 1369 e 1370 c.c., dato che l’inclusione delle prestazioni chirurgiche oggetto della copertura doveva desumersi (nell’ambito di un contratto di natura assistenziale ad elevata mutualità come quello avente come contraente un soggetto rappresentativo degli interessi di una categoria professionale) dalla interdipendenza delle clausole, le quali prevedevano casi copertura anche per interventi chirurgici endoscopici meno invasivi di quelli tradizionali oltre al rimborso delle spese di espianto d’organo, dallo scopo perseguito dalle parti, volto a far fronte anche a gravi interventi chirurgici eseguiti con le tecniche operatorie più avanzate nonché, infine, dalla necessità di interpretare le clausole dubbie nel senso più favorevole all’assicurato.

Così posti i termini della questione, la Cassazione, con pronuncia del tutto condivisibile, accoglie i motivi del ricorso, affrontandoli congiuntamente poiché tutti basati sulla erronea esclusione dalla copertura assicurativa degli interventi subito dal professionista assicurato, in quanto ritenuti estranei all’elenco contrattuale degli interventi chirurgici rilevanti ai fini di polizza.

Ebbene, la soluzione adottata dalla cassazione, destinata a rappresentare un precedente senz’altro importante, prende le mosse da una critica alla parte cruciale della motivazione della corte di appello.
Questa aveva sostenuto, infatti, che nell’elenco contrattuale rientravano gli interventi di resezione epatica ed epatotomia mentre, con riferimento alla prostata, erano previste l’adenomectomia da neoplasia maligna, la linfodenectomia e la prostatectomia e, su tale premessa, aveva poi ritenuto che gli interventi di termoablazione con radiofrequenza e poi quello di trapianto del fegato non rientrassero tra quello elencati nella polizza.

In particolare, il primo trattamento praticato al paziente doveva essere considerato di natura radiologica e non chirurgica, consistendo nell’immettere attraverso l’arteria epatica microsfere radioattive verso la parte malata del fegato, mentre il secondo non poteva essere fatto rientrare nella epatotomia, che consiste nell’incisione dell’organo.
Sempre la corte di appello, con riferimento ai trattamenti relativi alla prostata, aveva affermato che andassero riproposte le medesime considerazioni effettuate per il fegato, nel senso che l’assicurato non venne sottoposto a trattamenti chirurgici ma solo a terapie radiologiche ed ormonali.

In buona sostanza, la corte di appello ha escluso l’operatività della polizza sulla base del fatto che, nella specie, le tecniche interventistiche a finalità terapeutiche, non essendo di tipo tradizionale, non avrebbero potuto essere considerati interventi chirurgici ai sensi di polizza.
Tale interpretazione, che pare ingiustificatamente sbilanciata in favore dell’assicuratore, in quanto fa prevalere illogicamente il dato letterale sull’obiettivo contrattuale perseguito dalle parti, è respinta dalla Cassazione, con una serie di argomentazioni di indubbio interesse.

Secondo la Cassazione, infatti, nel contratto in questione la descrizione degli interventi coperti da assicurazione era stata formulata dalle parti con specifico riguardo all’obiettivo dell’intervento chirurgico, vale a dire al suo scopo terapeutico, non con riguardo alle tecniche operatorie utilizzate per la sua realizzazione.

E’ quindi errato, secondo la Cassazione non aver tenuto in considerazione del fatto che, già all’epoca della stipulazione della polizza (anno 2001) si erano già affermate, soprattutto per determinate patologie, tecniche operatorie alternative e più evolute, anche se pur sempre finalizzate al medesimo obiettivo terapeutico di rimozione dell’organo o della parte di esso interessata da lesione maligna) e che per tale motivo la polizza non poteva non ricomprendere, nell’ambito degli interventi elencati, anche tecniche operatorie differenti (complementari o sostitutive) rispetto a quelle tradizionali con bisturi, quali appunto quelle di natura radiochirurgica.

D’altronde è evidente, come rileva anche la Cassazione, che, una volta chiarito che la copertura assicurativa riguardava interventi di resezione, incannulazione antiblastica, epatotomia, rimozione di adenomi maligni, la corte di appello avrebbe dovuto considerare l’ipotesi che tale copertura valesse anche nel caso in cui questi interventi fossero stati eseguiti con tecniche più avanzate ed appropriate d quella chirurgica tradizionale. Per giunta, tali tecniche più avanzate erano già a quell’epoca consigliate dalla migliore e più aggiornata scienza medico-chirurgica, in quanto tali da consentire il raggiungimento dei medesimi risultati (ablazione della lesione tumorale) della chirurgia tradizionale, peraltro con metodiche meno invasive e più mirate alla sola parte d’organo malata (e, ancora, senza che ciò determinasse un aumento dei rischi per il paziente.

Del tutto assurda, anche nell’ottica di una nozione più ristretta e tradizionale di chirurgia è poi, secondo la Cassazione, l’argomentazione utilizzata dalla corte di appello per escludere la copertura del trapianto di fegato, vale a dire quella per cui il trapianto – sebbene implicante la resezione e l’incisione d’organo attraverso il bisturi – non poteva essere fatto rientrare nella nozione di epatotomia.

Con le appena descritte argomentazioni la Cassazione smonta l’impostazione della corte d’appello, e della difesa dell’impresa assicuratrice, tendente a differenziare l’intervento chirurgico tradizionale dal trattamento più evoluto, avente le medesime finalità terapeutiche, limitando la copertura solo al primo.
La cassazione si spinge anche oltre, precisando come, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, al risultato della ricomprensione nella nozione di interventi chirurgici anche di quelli eseguiti con metodiche più evolute e meno invasive di quelle tradizionali , si giunge anche attraverso una corretta applicazione delle regole sull’interpretazione del contratto di cui al codice civile.

In particolare, a questo proposito, viene citato il criterio interpretativo di cui all’art. 1362 c.c., secondo il quale l’indagine sulla effettiva intenzione dei contraenti non può limitarsi al senso letterale delle parole, ma deve considerare anche le finalità concretamente perseguite dalle parti, e ciò anche quando le espressioni testuali possano apparire di per sé chiare. Il principio dettato da questa disposizione non sarebbe stato, secondo la cassazione, correttamente applicato dalla corte di appello.

La Cassazione chiama in gioco anche il criterio ermeneutico dell’interpretazione complessiva delle clausole, di cui all’art. 1363 c.c., in considerazione del fatto che la polizza, sebbene con riferimento a diversi apparati ed a diverse patologie, comunque forniva copertura anche nel caso di interventi non effettuati con la tecnica tradizionale. Sempre con riguardo al criterio interpretativo dell’art. 1363 c.c. la Corte rilevava come una clausola di polizza prevedesse espressamente, quanto al “grande intervento chirurgico”, il rimborso delle spese di “prelievo di organi o parte di essi; ricovero relativo al donatore ed accertamenti diagnostici, assistenza medica ed infermieristica, intervento chirurgico di espianto, così da ricomprendere inequivocabilmente anche l’intervento di trapianto” (di fegato, nella fattispecie in questione).

Ancora, la Cassazione utilizza, ai fini di pervenire alla più inattaccabile interpretazione possibile della espressione “grandi interventi chirurgici”, il criterio interpretativo dell’art. 1369 c.c., in base al quale le espressioni che possano avere più significati (cosiddette espressioni “polisenso”), nella specie “grande intervento chirurgico”, devono, nel dubbio, essere intese nel senso più conveniente alla natura ed all’oggetto del contratto, tanto più che si trattava di un contratto concluso tramite la Cassa nazionale di previdenza forense, ed espressamente presentato dall’impresa assicuratrice come di “impostazione assistenziale ad elevata mutualità”, in modo tale da non giustificare, soprattutto in presenza di un grave evento morboso necessitante intervento operatorio, esclusioni di copertura giustificate da una troppo stretta interpretazione lessicale.

Infine, la Cassazione, al fine di corroborare la propria ricostruzione interpretativa, utilizza anche la regola di cui all’art. 1370 c.c., con risultato contrario a quello raggiunto dalla corte di appello.
Ai sensi dell’art. 1370 c.c., come noto, le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto predisposti da uno dei contraenti si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro.

In tale situazione deve quindi trovare applicazione il principio, già affermato dalla Suprema Corte, secondo cui “le clausole di polizza che delimitino il rischio assicurato, ove inserite in condizioni generali su modulo predisposto dall’assicuratore, sono soggette al criterio ermeneutico posto dall’art. 1370 c.c. e pertanto, nel dubbio, devono essere intese in senso sfavorevole all’assicuratore” (in questo senso si veda, ad esempio, Cass. civ. n. 866 del 2008).

La Cassazione accoglie quindi il ricordo proposto dall’assicurato in quanto ritiene, per i motivi sopra descritti, che nella sentenza della corte di appello ad una carenza logico-motivazionale si sia associata anche la violazione di molteplici criteri legali di interpretazione del contratto, pure sopra detti.

Prosegue quindi l’opera, senz’altro meritoria, della Cassazione la quale, con la sua attività interpretativa, mostra di valorizzare sempre più una interpretazione di buona fede, che sia rispondente alle effettive esigenze dell’assicurato e, ovviamente, sia giustificabile alla luce della interpretazione complessiva del contratto e della effettiva intenzione delle parti, così da poter ricostruire l’esatto perimetro del rischio assicurato (ide est della estensione della copertura assicurativa) al di là del tenore letterale delle clausole definitorie e di quelle di esclusione predisposte dall’assicuratore.

                                                                                                          Avv. Leonardo Bugiolacchi

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui