Il risarcimento dei danni causati da una illegittima condotta processuale (nella fattispecie, l’uso di un certificato abusivamente ottenuto) va chiesto nel processo in cui quella condotta è stata tenuta, e non attraverso un’autonoma azione

La condotta processuale illecita

La ricorrente aveva avuto una controversia civile con i titolari di una proprietà limitrofa. Nel corso di tale controversia questi ultimi avevano depositato un certificato del casellario giudiziale che riportava una condanna a suo carico per la realizzazione di un bagno abusivo.

Secondo la ricorrente tale produzione non solo non era legittima, ma neppure era giustificata da necessità di prova o di argomentazione; era in altre parole del tutto irrilevante per il giudizio tra confinanti, e cosi aveva citato in causa i confinanti al fine di ottenere il risarcimento del danno morale da violazione della riservatezza.

Il giudice di primo grado, pur ritenendo astrattamente configurabile il reato di cui all’art. 497 c.p., nella acquisizione e produzione del certificato, aveva rigettato la domanda sul presupposto che non fosse provato alcun danno.

A ciò la corte d’appello aveva aggiunto che la produzione in giudizio di quel certificato fosse giustificata da ragioni difensive, le quali comunque prevalgono sulla riservatezza, ed aveva affermato, inoltre, che un atto, anche se illegittimamente acquisito, è comunque utilizzabile nel processo civile, salve responsabilità di altro genere.

I motivi di ricorso

La sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione formulato dall’originaria parte attrice, la quale ha dedotto l’esistenza di un danno derivante da una scorretta, se non illegittima, condotta processuale della controparte (per uso illegittimo di un certificato penale), compiutasi in un altro e diverso procedimento civile.

Si trattava, in altre parole, di un danno riferibile alla violazione dell’art. 96 c.p.c., che la giurisprudenza della Suprema Corte da sempre intende in termini ampi, comprensivi di ogni condotta processualmente illecita, con la conseguenza che il risarcimento dei danni causati da una tale illegittima condotta processuale (nella fattispecie, l’uso di un certificato abusivamente ottenuto) va chiesto nel processo in cui quella condotta è stata tenuta, e non attraverso autonoma azione.

La responsabilità processuale aggravata

“L’art. 96 c.p.c.  – si legge in una recente sentenza della Cassazione (Cass. 12029/2017) -si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 2043 c.c., sicché la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando nella generale responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del citato art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra le due fattispecie, risultando conseguentemente inammissibile la proposizione di un autonomo giudizio di risarcimento per i danni asseritamente derivati da una condotta di carattere processuale, i quali devono essere chiesti esclusivamente nel relativo giudizio di merito” salvo che la proposizione in quel giudizio sia stata preclusa per l’evoluzione propria dello specifico processo da cui detta responsabilità è scaturita, ovvero per ragioni non dipendenti dalla inerzia della parte (Cass. 10518/2016), o che il ricorrente non dimostri un interesse specifico a proporre separatamente la domanda di risarcimento, quindi un interesse diverso da quello che poteva essere fatto valere nel giudizio in cui la responsabilità processuale si è concretizzata (Cass. 25862/2017).

Ebbene, anche nel caso di specie, la domanda di risarcimento del danno, avendo titolo in una condotta processuale della controparte (l’uso pretestuosamente illegittimo di una prova), andava proposta in quel giudizio.

Il ricorso è stato, perciò, dichiarato inammissibile e il Supremo Collegio (Terza Sezione Civile, ordinanza n. 5097/2020) ha cassato la sentenza impugnata senza rinvio, in quanto la domanda non doveva essere proposta.

La redazione giuridica

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