È valida l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui in caso di lite temeraria il giudice può condannare la parte soccombente al pagamento di una somma rapportata «alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa

La questione di legittimità costituzionale

Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile per contrasto con gli artt. 23 e 25, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui – stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» – non prevede l’entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna.

Secondo il rimettente la disposizione censurata, assegnando al giudice un potere ampiamente discrezionale senza fissare né un massimo né un minimo della somma al cui pagamento la parte soccombente può essere condannata, violerebbe la riserva di legge prescritta dall’art. 23 Cost., nonché il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.

Nella specie, il Tribunale di Verona si era trovato di fronte ad un’azione palesemente qualificabile come lite temeraria ai sensi dell’art. 96, primo comma, cod. proc. civ.

Riteneva pertanto, di poter fare applicazione del terzo comma di tale disposizione.

Ebbene come è evidente la questione ruota attorno alla disciplina giuridica della soccombenza della parte nella lite civile.

«L’art. 91 – afferma la Consulta – prevede in generale che il giudice, con la sentenza che chiude il processo, condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquidi l’ammontare insieme con gli onorari di difesa».

Se risulta che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave – aggiunge l’art. 96, primo comma, cod. proc. civ. – il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza.

La funzione di questa norma è rimasta la stessa di quella prevista dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ.: una sanzione per l’abuso del processo a opera della parte soccombente mediante la condanna di quest’ultima, anche d’ufficio, al pagamento di tale somma in favore della controparte, oltre al (o indipendentemente dal) risarcimento del danno per lite temeraria.

Però, rispetto al quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ., il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. presenta un duplice elemento differenziale.

Da una parte, non prevede più, come presupposto della condanna, la «colpa grave» della parte soccombente; d’altra parte, il criterio di quantificazione della somma oggetto della possibile condanna è rimasto solo equitativo, non essendo più previsto il limite del doppio dei massimi tariffari.

Ed invero, “l’equità – si legge nella sentenza della Corte Costituzionale – lungi dall’essere criterio di misurazione di una grandezza predata ovvero parametro di giudizio alternativo alle regole di diritto– costituisce criterio integrativo di una fattispecie legale consistente – com’è appunto nella norma censurata – in una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge”.

Il principio della riserva di legge relativa

Viene allora in rilievo il principio – correttamente evocato dal giudice remittente – secondo cui «[l]a riserva di legge, di carattere relativo, prevista dall’art. 23 Cost. non consente di lasciare la determinazione della prestazione imposta all’arbitrio dell’ente impositore, ma solo di accordargli consistenti margini di regolazione delle fattispecie”.

Detto in altri termini, il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta dall’art. 23 Cost. richiede che la fonte primaria stabilisca sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge (sentenze n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011).

Tale ragionamento utilizzato soprattutto in materia tributaria, ove la cui quantificazione era rimessa all’autorità amministrativa, non è ugualmente applicabile alla fattispecie normativa in esame.

Ed invero, l’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. assegna al giudice, nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale, il compito di quantificare la somma da porre a carico della parte soccombente e a favore della parte vittoriosa sulla base di un criterio equitativo.

La valutazione equitativa secondo la giurisprudenza

Il legislatore, esercitando la sua discrezionalità particolarmente ampia nella conformazione degli istituti processuali ha, in altre parole, fatto affidamento sulla giurisprudenza che, nell’attività maieutica di formazione del diritto vivente, soprattutto della Corte di cassazione (sentenza n. 102 del 2019), può specificare – così come ha già fatto – il precetto legale.

Al riguardo la giurisprudenza di legittimità, anche recente, ha, appunto, precisato che il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., rinviando all’equità, dovrebbe essere ispirato al criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e quindi la somma da tale disposizione prevista va rapportata «alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa» (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 11 ottobre 2018, n. 25177 e n. 25176).

Questo criterio, ricavato in via interpretativa dalla giurisprudenza, per i giudici della Consulta – è coerente e omogeneo rispetto sia a quello originariamente previsto dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ. (che contemplava il limite del doppio dei massimi tariffari), sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell’art. 26 cod. proc. amm. (che similmente prevede il limite del doppio delle spese di lite liquidate secondo le tariffe professionali).

In definitiva, è stato affermato che “la somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa ha sufficiente base legale e quindi – ferma restando la discrezionalità del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in diminuzione, la sua quantificazione – è comunque rispettata la prescrizione della riserva relativa di legge di cui all’art. 23 Cost“.

Per questi motivi ha dichiaro inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Verona in ordine all’art. 96, terzo comma c.p.c.

La redazione giuridica

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