Opera il principio dell’inadeguatezza del consenso informato ove esso sia prestato apponendo la firma su un modulo prestampato e generico

La vicenda

Con atto di citazione una paziente conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Firenze, un medico chirurgo chiedendo che ne fosse accertata la responsabilità in ordine ai danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti a seguito degli interventi effettuati.

Parte attrice esponeva di essere stata convinta dal sanitario ad operarsi, nonostante un quadro clinico non preoccupante (emorroidi di secondo grado), prospettando un intervento non impegnativo.

L’intervento avvenne nel marzo del 1998 e, nel corso dell’operazione, si verificò una imponente emorragia, che rese necessario un secondo intervento chirurgico, caratterizzato da un lungo decorso postoperatorio in cui la paziente patì dolori lancinanti. Nel maggio del 1998, ella subì un terzo intervento, questa volta senza preventiva acquisizione del consenso informato.

Ma a causa della sintomatologia fortemente dolorosa la paziente si sottopose alla visita specialistica di un differente professionista e nel settembre dello stesso anno, subì un quarto intervento, che non riuscì, tuttavia, a rimediare i danni delle precedenti operazioni. Il decorso postoperatorio evidenziò la scarsa possibilità di restaurare la funzione rettale.

La paziente sporse, allora, querela nei confronti del sanitario e, in sede di incidente probatorio, fu accertata la sua responsabilità sotto il profilo della imperizia nella conduzione della assistenza alla paziente. Nelle more del giudizio l’assicurazione del professionista versò volontariamente alla danneggiata la somma di 160 milioni di lire tenuta in acconto.

Successivamente alla paziente fu applicato un pace-maker anale, ma a causa dell’aggravarsi della situazione clinica, la stimolazione elettrica venne abbandonata per poi essere sottoposta, tra il marzo e luglio 2005, ad altri due interventi di graciloplastica, anch’essi non risolutivi.

L’azione risarcitoria

Quindi il ricorso dinanzi al giudice civile al fine di ottenere il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non subiti, compresi quelli alla sua persona, legati al forte carico di dolore fisico e psichico, oltre alla rinunzia ad ogni rapporto sessuale e la conseguente crisi del matrimonio, sfociata nella separazione dal marito.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Firenze condannò il professionista, ritenuto responsabile degli errati interventi chirurgici, al pagamento della somma di 42.055 euro (condannò anche la sua assicurazione a tenerlo indenne da ogni somma dovuta).

La Corte d’Appello di Firenze, in parziale accoglimento del gravame presentato dalla danneggiata, condannò il convenuto al pagamento della ulteriore somma di 6.549 euro a titolo di risarcimento del danno da invalidità temporanea e della somma di 3.781 per spese mediche, con condanna dell’assicuratore a manlevarlo riguardo al pagamento delle somme dovute.

Da ultimo si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione, a seguito del ricorso formulato dalla danneggiata.

La Terza Sezione Civile della Cassazione (sentenza n. 23328/2019) ha accolto la censura relativa alla mancata applicazione al caso di specie, dei principi in tema di nesso causale nella responsabilità civile, da parte della corte di merito, “che richiedono una indagine relativa a due autonomi profili: la causalità materiale tra condotta e l’evento (che ricorre quando il comportamento abbia generato o contribuito a generare l’evento) e la causalità giuridica, quale relazione i base alla quale i fatti sopravventi, di per sé idonei a determinare l’evento, interrompono il nesso con il fatto rispetto a tutti gli antecedenti causali precedenti.”

A detta della ricorrente, il CTU non aveva affrontato il tema della causalità materiale e giuridica riferita al quarto intervento.

Ebbene, al riguardo, la Cassazione ha affermato che “in sede civile, la lesione dell’interesse protetto non costituisce il danno, ma la causa del danno. Pertanto, in ambito civile occorre sostanzialmente accertare due nessi di causalità: quello tra la condotta illecita e la lesione dell’interesse e, quello successivo, tra la lesione dell’interesse e il danno risarcibile. La prima verifica attiene alla causalità materiale e trova disciplina negli articoli 40 e 41 del c.p., mentre la seconda riguarda la causalità giuridica e si fonda sull’art. 1223 c.c. Ove ricorra la prima è possibile parlare di illecito, ove sussista anche la seconda è configurabile anche il danno. È pertanto, necessario per l’accertamento dell’obbligo risarcitorio il positivo accertamento di entrambi i profili che riguardano la condotta, la lesione e il danno”.

Nella decisione impugnata la corte d’appello non aveva preso in esame i richiamati principi, non avendo correttamente argomentato la scelta di attribuire efficacia causale autonoma all’intervento eseguito dal sanitario, sebbene dall’esame della CTU fossero emersi elementi di senso contrario non adeguatamente considerati.

La violazione del consenso informato

La paziente aveva altresì, lamentato la violazione degli artt. 1218, 1236 e 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che 2, 13 e 32 Cost., per aver la corte territoriale ritenuto validamente espresso il consenso informato sulla base di un modulo prestampato dal contenuto generico, e nella parte in cui le aveva addossato l’onere di provare che, se adeguatamente informata, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento.

Secondo la ricorrente, la decisione era in contrasto con l’orientamento di legittimità che ritiene insufficiente la sottoscrizione di un modulo di consenso informato del tutto generico.

Nel caso di specie, tale presupposto sarebbe stato trattato come l’espletamento di un mero adempimento burocratico, senza alcuna personalizzazione; in secondo luogo, il secondo e il terzo intervento non erano neppure stati preceduti dal rilascio di alcun consenso (informato), neanche mediante modulo.

La paziente lamentava dunque, il mancato riconoscimento della tutela alla libertà di autodeterminazione quale autonoma voce risarcitoria.

Il motivo di ricorso è stato accolto perché fondato.

La corte d’appello, come correttamente evidenziato dalla ricorrente, aveva ritenuto di poter estendere il consenso validamente espresso per iscritto anche agli interventi successivi.

“Tale premessa non è condivisibile  hanno affermato gli Ermellini – perché opera il principio dell’inadeguatezza del consenso e, prima ancora, della informazione, ove il consenso sia prestato apponendo la firma su un modulo prestampato e generico”.

Sul punto, la Cassazione ha già chiarito che in tema di attività medico-chirurgica- il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all’uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (Sez. III, n. 2177/2016).

Peraltro, in considerazione del carattere riparatorio degli interventi chirurgici successivi al primo e che si inserivano nell’ambito di un pregiudizio già verificatosi, il profilo relativo alla preventiva informazione non poteva non assumere un carattere particolarmente pregnante, dovendosi tradurre in comunicazioni dettagliate e specifiche al fine di consentire alla paziente di conoscer gli esatti termini della patologia determinata dai pregressi interventi e le concrete prospettive di superamento di quelle criticità.

Nel caso di specie, le peculiari caratteristiche dell’obbligo di informazione risultavano del tutto incompatibili con le generiche indicazioni fornite dai sanitari prima del primo intervento, per come accertate dai giudici di merito.

È peraltro ormai consolidato in giurisprudenza, il principio (espressamente confermato da Cass. n. 11950/2013) che ha riconosciuto autonoma rilevanza, ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitori, della mancata prestazione del consenso da parte del paziente, e che ha espressamente ritenuto che “la violazione da parte del medico del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi  all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio patrimoniale oppure non patrimoniale, diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Ciò in quanto il paziente ha la legittima pretesa di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le conseguenze dell’intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, posto che la Costituzione sancisce il rispetto della persona umana in qualsiasi momento della sua vita e nella integralità della sua essenza psicofisica”.

In definitiva, visto il carattere “riparatorio” degli interventi successivi al primo e l’esito non risolutivo degli stessi, la Cassazione ha concluso che l’onere di provare che se adeguatamente informata, la paziente avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non poteva certo dirsi a suo carico.

Per tutti questi motivi, la sentenza impugnata è stata cassata in relazione ai motivi accolti e, rinviata la causa alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione.

Avv. Sabrina Caporale

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