Convivenza non significa coabitazione, con la sentenza 17 maggio 2017 n. 24470 la Cassazione assolve lo psichiatra dal reato di truffa aggravata

Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza con cui la locale Corte di Appello aveva condannato un medico psichiatra, per il reato di truffa aggravata nei confronti della ASL, datore di lavoro la seconda sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza 17 maggio 2017 n. 24470 ha escluso il reato ritenendo che non potesse ritenersi “per principio” falsa la dichiarazione rilasciata a suo tempo dall’imputato circa la propria convivenza con la madre, persona portatrice di handicap in situazione di gravità ai sensi dell’art. 3 comma 3 l. 104/92, quando invece lo stesso imputato, ricorrente per Cassazione, risultava diversamente domiciliato in altro stabile con la propria famiglia nucleare.
La sentenza in commento, pur adottando una soluzione meramente processuale ancorata sulla mancata ammissione della prova sulla condotta penalmente rilevante, consente – in sede di commento – di ritornare sulle differenze esistenti fra domicilio e residenza, come detto esistenti ma forse non troppo note.
Ricordiamo a noi stessi che il concetto di residenza ci è dato dall’art. 43 c.c. il quale cosi dispone: il domicilio di una persona è nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale.
Sulla base di una dichiarazione, autocertificata di convivenza, il medico nel caso di specie aveva ottenuto dalla ASL un congedo straordinario retribuito, beneficio che la legge-quadro finalizza all’assistenza delle persone con disabilità riconosciute in condizione di gravità.
Smontando, nel caso di specie, l’ipotesi di reato di truffa, per cui è causa i giudici di legittimità chiariscono ancora una volta che in tema di assistenza al familiare portatore di handicap il concetto di convivenza non può essere ritenuto coincidente con quello di coabitazione poiché in tal modo – si legge nella sentenza in commento – si giungerebbe ad un’interpretazione eccessivamente restrittiva che andrebbe per fino contro il fine ultimo della norma in discussione, che è quello di agevolare l’assistenza degli handicappati (il termine è quello tuttora presente nel testo della legge 104, e lo si usa in questo senso).
Argomenta ancora la Corte che risulterebbe incomprensibile escludere dai benefici di legge il lavoratore che conviva costantemente con la persona bisognosa di assistenza, sia pure limitatamente ad una specifica fascia oraria.
Come abbiamo visto infatti, ai sensi di legge, domicilio e residenza possono, ed anzi nella maggior parte dei casi, coincidono e quindi non si può presumere sic ed simpliciter la falsità della dichiarazione resa, in assenza prove diverse che gli ermellini attestano non essere state rivalutate in sede di gravame.
Tra le righe della pronuncia resa nel caso di specie è facile intuire la considerazione, non esplicitata dai giudici, per la quale trattandosi di prestazioni volte ad assicurare alle persone un sostentamento minimo, ovvero comunque quanto minimamente necessario ai fini della sopravvivenza, affermare il criterio stretto della coabitazione porterebbe molte persone a trovarsi prive dell’assistenza di cui pure per altri versi si afferma la necessità assoluta.
Non può affermarsi che l’attività professionale extramuraria svolta dall’imputato nel medesimo periodo in cui si trovava in congedo retribuito, escludesse di per se stesso che vi potesse essere stata anche la necessaria attività assistenziale attività che ha carattere, lo si rammenta, personale e non delegabile.
Si arriva a siffatta conclusione pur senza conoscere concretamente le condizioni cliniche o la tipologia di assistenza, effettivamente richiesta dalla persona con disabilità alla cui tutela era volto il congedo riconosciuto dalla ASL; ciò che sappiamo è che occorre in ogni caso e sempre avere presente ciò di cui si sta discutendo: benefici il cui vantaggio primario non è – e non deve essere – del lavoratore, ma dell’assistibile cui occorre garantire la maggiore e migliore integrazione possibile nel contesto familiare e sociale di riferimento.
Ma vi è qualcosa di più, ed è qualcosa che incide direttamente sulla relazione esistente tra l’originario imputato e il soggetto da assistere, una relazione madre-figlio.
Sembra scontato pensare che di fronte alla prospettiva di abbandonare a se stessa la propria madre disabile, il ricorrente abbia scelto in ogni caso di assisterla.
Ogni diversa conclusione avrebbe finito per esporre il protagonista di questa storia ad altro genere di problemi, infatti risulta oltremodo consolidato il principio per cui l’ordinamento deve garantire, per quanto possibile, le pretese della persona nei confronti della famiglia quando questa venga meno ai propri doveri di solidarietà, con una specifica previsione di risarcibilità del danno ai sensi dell’art. 2059 c.c.
Questa previsione di tutela aquiliana degli illeciti endofamiliari è un importante strumento di protezione della persona, se si considera che la protezione ordinamentale deve essere garantita sia al singolo che alle formazioni sociali e, di fatto necessariamente, anche le une contro gli altri.
Tra le specifiche tipologie di danno endofamiliare individuabili assume un certo rilievo la condotta di abbandono e di mancanza di cure nei confronti di soggetti c.d. deboli, categoria che chi scrive non condivide in molti contesti, ed in particolar modo minori ed anziani. A norma di legge e di etica costituisce abbandono qualsiasi azione od omissione che contrasti con il dovere giuridico di custodia o di cura, da cui derivi una situazione di pericolo anche solo potenziale per la persona tutelata: più specificamente per tornare al caso in commento, la mancanza di cura nei confronti di un familiare malato costituisce un’ipotesi particolare di abbandono.
La dottrina prevalente considera che il malato si trovi in una particolare condizione di debolezza o in casi estremi di incapacità anche parziale di autodeterminarsi, che è tanto più grave con l’aggravarsi del quadro clinico e patologico.
Non può configurarsi correttamente il reato di truffa se, come nel caso di specie, non si sia provveduto a verificare le testimonianze rese e sullo specifico punto la Corte considera insufficiente la prova acuisita e, senza avere – lo si ripete – conoscenza dello specifico (e necessariamente individuale) livello di assistenza concretamente richiesto dalla persona in favore della quale era stato riconosciuto il beneficio.

Avv. Silvia Assennato
(foro di Roma)

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