La forzata inattività non è ammissibile e il datore deve consentire la prestazione al lavoratore configurandosi altrimenti un danno alla personalità

La particolare vicenda è stata decisa dalla Corte di Appello di Catania (sez. lav., sentenza n. 611 del 7 ottobre 2020). Con ricorso al Tribunale di Enna una dipendente di Poste Italiane della filiale di Enna chiama in causa il datore di lavoro e il proprio direttore di filiale chiedendo il risarcimento del danno alla personalità, da dequalificazione, biologico, morale ed esistenziale.

La donna, in forza presso l’ufficio di Poste Italiane di Enna, in qualità di capo area commerciale, veniva privata delle mansioni svolte ed assegnata a quelle di responsabile del servizio amministrativo acquisti, per poi essere arbitrariamente spostata all’ufficio succursale Enna 1 in posizione subordinata al direttore di quella filiale, anch’egli quadro di primo livello ma con minore anzianità di servizio.

Secondo la ricorrente tale trasferimento veniva attuato per ragioni di astio da parte del direttore della filiale a causa delle lamentele formali dalla stessa presentate circa l’operato del medesimo.

Si costituivano i convenuti e davano atto che la ricorrente, nel suo ruolo di capo area servizio commerciale, non aveva raggiunto i risultati prefissati per l’anno 2000 e non si era attivata per dare attuazione al progetto commerciale previsto.

Davano atto, altresì, che la lavoratrice anche nel nuovo incarico di responsabile del servizio amministrazione e acquisti non raggiungeva risultati adeguati per mancanza di motivazione, e proprio per tale ragione veniva disposto il trasferimento presso la succursale n. 1 di Enna.

In tale periodo la lavoratrice svolgeva un periodo di formazione allo scopo di assumere l’incarico di direttore dell’ufficio, ma la stessa si rifiutava di collaborare e di affiancare il direttore per apprendere le modalità di gestione dell’ufficio.

In corso di causa la lavoratrice decedeva e si costituivano gli eredi, successivamente il Tribunale di enna rigettava il ricorso della donna.

Non risultava raggiunta la prova circa i comportamenti lamentati volti all’emarginazione della lavoratrice e al demansionamento.

Egualmente il Tribunale non ravvisa nessun intento vessatorio nei confronti della donna, risultando provato che l’assegnazione di compiti diversi da quelli in precedenza svolti trovava giustificazione nelle inefficienze registrate nei settori ai quali era preposta.

A tale mutamento –legittimo- di mansioni era seguito un atteggiamento non collaborativo e demotivato oltre che ostile della lavoratrice, che aveva anche portato i colleghi della succursale Enna 1 a chiedere il suo allontanamento per incompatibilità ambientale.

Avverso la citata sentenza proponevano appello gli eredi della donna dinanzi la Corte di Caltanissetta che riteneva inammissibile l’appello per difetto di specificità dei motivi.

Viene dunque proposto ricorso in Cassazione per avere erroneamente la Corte di Caltanissetta accolto l’eccezione di inammissibilità. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo che, seppure con veste grafica particolare, l’atto contenesse una critica specifica consistente nell’errata valutazione del materiale istruttorio e ha rinviato alla Corte di Catania.

I familiari della lavoratrice deceduta censurano la sentenza per avere omesso di valutare, o per avere valutato in modo non corretto, i documenti prodotti e l’esito delle prove orali assunte che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo Giudice, davano prova dei comportamenti persecutori.

Viene indicato che contro la lavoratrice era stato messo un cartello alla porta dell’ufficio postale, indicandola come persona non autorizzata all’ingresso; che era stata privata di tutti gli strumenti di lavoro e costretta a lavorare in piedi in una rimessa sporca, da tempo dismessa e tra l’altro infestata dai topi.

Inoltre alla donna erano stati sottratti tutti gli incarichi e le veniva impedito di avere contatti con gli utenti per ragioni di riservatezza, di avvicinarsi allo sportello, di visionare le circolari, di entrare nel caveau, veniva allontanata in caso di ispezioni o di visite, poteva unicamente leggere giornali e riviste visto che, in tutti i casi in cui la stessa si sarebbe potuta rendere utile, il direttore chiamava altri colleghi.

Tali circostante venivano confermate dal direttore dell’agenzia succursale 1 di Enna, che dichiarava che la donna non aveva alcuna mansione operativa non avendo – unica tra tutti i colleghi – un posto fisso per lavorare, che molti colleghi avevano protestato con lui perchè la stessa non lavorava e che l’utenza si doleva del fatto che, nelle giornate particolarmente affollate, la ricorrente fosse inoperosa, tanto che lui aveva suggerito alla donna di non farsi vedere in pubblico, essendo evidentemente non giustificabile e non tollerabile il fatto che non lavorasse.

Il direttore confermava, inoltre, che la donna non aveva una stanza, nè un telefono e nemmeno una scrivania, operando in un angusto archivio, pieno di scaffalature metalliche dove venivano archiviati i fascicoli, raramente pulito.

Altro teste, segretario provinciale del sindacato cui apparteneva la donna, confermava che la lavoratrice era segregata in una stanza priva di finestre, adiacente al bagno ed era adibita unicamente a mansioni miserrime, quali la tenuta del sacco in cui avveniva l’inserimento della posta per la spedizione della corrispondenza, essendo per contro sistematicamente interdetta dallo svolgimento di qualsiasi attività rilevante e, inoltre, essendo sempre esclusa da qualsiasi attività formativa o di aggiornamento. Confermava, inoltre, che sulla porta di ingresso della filiale dell’ufficio postale era stato affisso un foglio che impediva l’accesso alla donna.

La Corte di Catania ritiene l’appello parzialmente fondato e preliminarmente osserva che la domanda di accertamento dello straining e del danno conseguente è da ritenersi inammissibile in quanto tardiva.

Per quanto concerne il lamentato mobbing, la Corte richiama la nozione elaborata dalla giurisprudenza e rammenta le conseguenze di mortificazione morale ed emarginazione del dipendente con effetto lesivo della salute e della personalità.

Tuttavia, il Collegio ritiene che non vi è mobbing poichè difetta la prova di comportamenti vessatori e persecutori.

Dall’istruttoria svolta e dai documenti prodotti emerge che la donna nell’anno 2000 non raggiungeva gli obiettivi a lei assegnati in qualità di responsabile del servizio commerciale e, in particolare, non dava attuazione al piano commerciale non realizzando, tra l’altro, le previste visite presso i sindaci.

Con provvedimento dell’agosto 2001 la ricorrente veniva applicata temporaneamente al servizio sportelli, assicurando la sostituzione del responsabile assente per malattia. In tale veste le veniva assegnato presso il servizio sportelli il compito di monitorare l’arretrato delle varie contabilità, delle richieste di apertura nuovo banco posta giacenti e delle carte di credito e di provvedere alla digitazione delle cedole dei buoni postali fruttiferi, attività per la quale la filiale di Enna era in grave ritardo.

Il direttore della filiale e il direttore regionale confidavano che l’esperienza e l’impegno della donna nel settore sportelli sarebbero stati determinanti per il raggiungimento dell’obiettivo, senza alcun intento vessatorio, ma anzi manifestando fiducia.

Ed infatti la donna, che nel frattempo manteneva l’incarico di responsabile del servizio commerciale, con missiva del 6 agosto 2001 ringraziava il direttore regionale e quello della filiale per la fiducia accordata e assicurava il massimo impegno per effettuare gli interventi necessari per eliminare le criticità e per attuare i progetti commerciali dei quali aveva la diretta responsabilità.

Emergevano, inoltre, criticità anche nella gestione del servizio amministrazione diretto dalla lavoratrice.

A seguito di tale giudizio negativo veniva disposto il riposizionamento della donna in un diverso ambito lavorativo e a tal fine la stessa veniva assegnata temporaneamente dal 4 dicembre 2002 presso l’ufficio postale di Enna succursale 1.

Tale riposizionamento, non riguardava esclusivamente la donna ma anche un altro dipendente responsabile di servizio che non aveva operato in modo efficiente.

Per tali ragioni, come correttamente ritenuto dal primo Giudice, a fronte della scarsa produttività accertata, rientrava nelle prerogative del datore di lavoro la modifica dei compiti assegnati al dipendente.

Egualmente non risulta provato che l’incarico di responsabile del servizio sportelli o del servizio amministrazione e acquisti fosse inferiore a quello precedentemente svolto.

Non emerge alcun comportamento vessatorio, o intento persecutorio, del datore di lavoro e in particolare del direttore, atteso che il mutamento di compiti trovava ampia giustificazione nei risultati negativi registrati e riguardava non soltanto la donna, ma anche un altro dipendente che non aveva operato in modo efficiente.

In ordine alle condizioni del luogo di lavoro nel periodo in cui la donna fu assegnata anche al servizio sportelli e alla digitazione delle cedole dei buoni postali fruttiferi, non è stata provata la mancanza degli strumenti di lavoro e la costrizione a lavorare in piedi in una stanza sporca.  

La deposizione resa dal teste in tal senso non appare attendibile in relazione al periodo in cui la ricorrente si occupava dell’organizzazione del data entry dei buoni postali fruttiferi in quanto, come emerge dalla deposizione, tale attività si svolgeva quando il teste era assente per malattia.

Altro teste ha riferito che la donna non aveva una stanza, nè computer, nè telefono e l’ambiente di lavoro era molto sporco.

Per contro, altro teste ha riferito che nel periodo tra il 2001 e il 2002, in concomitanza con il conferimento dell’incarico ad interim presso il servizio sportelli, la lavoratrice aveva una stanza anche al piano superiore rispetto a quella ove operava come responsabile del servizio commerciale. Il teste ha visionato le fotografie dell’archivio dei buoni postali fruttiferi chiuso da una porta blindata e ha precisato che tale spazio non era un ufficio e che la tracciatura dei buoni postali avveniva mediante inserimento nel computer dei dati dei buoni postali fruttiferi che erano conservati in scatoloni e venivano portati in una stanza limitrofa, ove si trovava il computer per l’inserimento dei dati.

In tal senso altro teste, ha riferito che nel periodo in cui alla ricorrente fu affidato ad interim il servizio sportelli, la donna non aveva perso la disponibilità della propria stanza e nel periodo in cui aveva il compito del “data entry” le fu assegnata temporaneamente altra  stanza di un collega assente. Inoltre, l’archivio non era un luogo di lavoro, ma esclusivamente un luogo ove venivano custoditi i documenti.

Tale circostanza è stata confermata anche da un altro teste che aveva visto in quel periodo la ricorrente lavorare nella stanza del responsabile del servizio sportelli e andare nell’archivio soltanto per prelevare documenti che andavano inseriti per via informatica

Sulla scorta delle testimonianze rese, viene escluso che la donna lavorasse in un ambiente insalubre e angusto.

Riguardo il foglio esposto sulla porta dell’Ufficio postale con il quale si vietava alla signora  l’accesso alla filiale non viene ritenuta raggiunta la prova che si trattasse di un ordine di servizio specifico con il quale si vietava l’accesso alla filiale.

Per quanto riguarda il periodo in cui la ricorrente è stata assegnata presso la succursale Enna 1 , il Collegio ritiene che non vi sia prova di comportamenti vessatori e ancor meno di un intento persecutorio.

Tuttavia, la ricorrente ha agito non soltanto per il risarcimento del danno conseguente a mobbing ma anche per il danno professionale conseguente al demansionamento lamentando che in concreto non si fosse trattato di un mero mutamento dei compiti assegnati ma che la stessa fosse stata privata di qualsiasi compito e ridotta in totale inattività, relegata in un luogo non adeguato, priva degli strumenti di lavoro e senza alcun compito preciso da eseguire.

Tale doglianza è fondata in relazione al periodo in cui la lavoratrice ha prestato servizio presso la succursale 1 di Enna.

Ed invero, la ricorrente è rimasta inoperosa, senza l’assegnazione di compiti specifici. Non aveva una propria postazione nè un computer, non aveva una password di accesso al sistema informatico e svolgeva compiti del tutto inappropriati rispetto al livello di inquadramento.

Inoltre, di regola, queste assegnazioni in affiancamento hanno breve durata, ma è pacifico che nei confronti della donna l’assegnazione si sia protratta per oltre due anni.

Il lavoratore ha il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e correlativamente il datore di lavoro ha l’obbligo di consentire l’esercizio della prestazione lavorativa, che rappresenta uno strumento di realizzazione della personalità.

In definitiva, pur escludendo uno specifico intento persecutorio, il Tribunale afferma la responsabilità del datore di lavoro per l’accertato demansionamento protratto da maggio 2003 sino alla data di deposito del ricorso.

Riguardo il danno biologico, osserva la Corte che la donna, già soffriva di una sindrome ansiosa ed era in cura presso un centro di salute mentale prima di svolgere il servizio presso la succursale Enna 1.

Ne consegue che lo svolgimento cronologico dei fatti esclude il collegamento causale tra la mancanza di direttive e la patologia lamentata.

In ordine al danno professionale da demansionamento o inattività la Corte ritiene che il danno professionale lamentato, quale impoverimento del bagaglio professionale conseguente all’inattività debba ritenersi provato.

In parziale accoglimento Poste Italiane viene condannata a pagare in favore dei familiari della donna  un importo pari al 50% della retribuzione netta percepita dalla lavoratrice da maggio 2003 al 6 agosto 2004 oltre interessi sul capitale rivalutato dalla maturazione del credito, compensa per metà le spese processuali di tutti i gradi di giudizio e condanna Poste Italiane a pagare la restante metà.

Avv. Emanuela Foligno

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