In caso di maltrattamenti e offese verbali, se perpetrate abitualmente nei confronti di tutti i dipendenti, non sussiste discriminazione da mobbing

In tal senso si è pronunciato il Tribunale di Ascoli Piceno (sez. lav., sentenza n. 193 del 2 ottobre 2020) a conclusione di una causa per mobbing.

Una lavoratrice, assunta a tempo determinato part-time con la qualifica di operaio comune, chiama in giudizio il proprio datore di lavoro eccependo: di non essere stata regolarmente retribuita per le ore straordinarie; di essere stata principalmente addetta al reparto ortofrutta, e per 2 giorni alla settimana impiegata nel reparto sala per la rifornitura delle scaffalature dei vari reparti; di essere stata utilizzata in ogni reparto sfornito da personale; che il titolare non aveva mai fornito i DPI necessari per l’attività lavorativa; che, a causa delle insistenze della ricorrente sulla stipula di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, il Datore, iniziava ad avere un atteggiamento discriminatorio, aggressivo ed offensivo, nell’intento, di costringerla a lasciare il lavoro.

Il datore di lavoro apostrofava la lavoratrice con frasi offensive del tipo: “tu ie’ fraceda” (tu sei fradicia) facendo riferimento alla sua pregressa operazione ad entrambe le orecchie per una forma tumorale; “che stem qua a rubba’ lo stipendio” (che stiamo qua a rubare lo stipendio) …”Tu non c’hai voglia di fare un ….”,  “tu non ci stai con la testa.. tu stai esaurita”, criticando il suo operato continuamente e chiedendo sempre più ore di straordinario.

Il comportamento offensivo del datore di lavoro proseguiva sino a determinare l’ingresso della lavoratrice al Pronto Soccorso di Ascoli Piceno che formulava la diagnosi di “sindrome ansiosa reattiva”.

A seguito di ciò, la lavoratrice denunziava l’infortunio che si protraeva per alcuni mesi fintanto che nel gennaio 2016  le veniva comunicato il licenziamento.

La lavoratrice invoca in giudizio la declaratoria di mobbing, adducendo comportamenti volutamente prevaricatori, ripetuti nel tempo e volti ad estrometterla  dalla struttura organizzativa, mediante il perseguimento di un preciso intento datoriale, quale quello di perseguitare il lavoratore, demolirne la personalità e la professionalità e cagionando danni di natura psico-fisica e alla vita di relazione.

Il risarcimento del danno conseguente viene dalla lavoratrice quantificato in oltre 70 mila euro.

Il giudizio viene istruito attraverso prove testimoniali, a seguito delle quali, tuttavia, il Tribunale non ritiene provati i fatti dedotti dalla lavoratrice.

Nello specifico, una teste conferma che il datore di lavoro costringeva la donna a continui mutamenti di mansioni spostandola da un reparto all’altro e che la ricorrente veniva inviata alle celle frigorifere senza mezzi di protezioni individuali.

Inoltre, viene confermato che il datore aggrediva verbalmente la lavoratrice con urla e insulti. Anche altro teste conferma che il datore apostrofava la lavoratrice.

Altri testi dichiarano di non avere assistito ad assalti verbali nei confronti della donna e che tutti i dipendenti erano soggetti a repentini cambi di mansioni in base alle necessità.

Un’altra teste nega che il datore avesse tenuto atteggiamenti persecutori o discriminatori nei confronti della donna.

Altri lavoratori confermano che i cambi di  mansioni subiti dalla donna erano normali per tutti e che gli stessi avvenivano principalmente per coprire assenze dovute a malattie o permessi.

Il Tribunale ritiene che le prove orali svolte non siano indicative delle doglianze lamentate dalla lavoratrice.

Al riguardo ricorda che la giurisprudenza di legittimità intende per mobbing  quella condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti:

 a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

 c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;

d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

In altri termini, per la configurazione del mobbing devono sussistere sistematici e ripetuti abusi, inquadrabili nel cosiddetto terrorismo psicologico intenzionale.

Per quanto riguarda la domanda di risarcimento del danno proposta per mobbing e conseguente malattia depressiva, il Tribunale ricorda che deve essere specificamente allegato dal lavoratore , e provato, quali fatti siano stati lesivi.

Non è sufficiente indicare i comportamenti del datore di lavoro, e l’istruttoria svolta non ha consentito di ritenere raggiunta la prova dell’esistenza di un complesso sistematico di comportamenti vessatori tenuto dal datore di lavoro nei confronti della donna ricorrente.

La sussistenza della lesione del bene protetto (salute del lavoratore) e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro.

La condotta offensiva del datore di lavoro -rilevante ai fini del mobbing- può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato.

Ebbene, nel caso esaminato non sono emersi disegni oggettivi di persecuzione e discriminazione, nè tantomeno è emerso che i rimproveri del datore di lavoro avessero natura meramente emulativa e pretestuosa.

Per quanto riguarda i rimproveri verbali, è emerso che il datore  adottava tale metodo nei confronti di tutti i dipendenti, e non solo della lavoratrice ricorrente, per cui, anche laddove fosse provato l’uso di espressioni scurrili e offensive da parte del datore di lavoro, tale incongruo comportamento non potrebbe essere ritenuto in alcun modo discriminatorio, non avendo quale destinatario unicamente la lavoratrice ricorrente.

Sul punto, specifica il Tribunale,  2 testi hanno negato che il datore abbia usato espressioni offensive o sconvenienti nei confronti della lavoratrice, mentre un altro teste non è stato in grado di riferire alcunché.

Solo un teste avrebbe confermato le espressioni offensive e sconvenienti.

Orbene, da una parte due deposizioni raccolte nel corso del giudizio sono in contrasto netto con quanto riferito da altri testi.

Anche riguardo  al cambio di mansioni,  l’istruttoria ha permesso di accertare che a tali cambi erano sottoposti tutti i dipendenti.

In definitiva, il Tribunale non ravvisa la sussistenza di comportamenti persecutori nei confronti della ricorrente in quanto l’istruttoria non ha fornito elementi idonei a far ritenere la sussistenza di tale evenienza, e il ricorso della lavoratrice viene rigettato con condanna della stessa alle spese di lite.

La sentenza a commento, dimostra ancora una volta, con quanta leggerezza venga invocata la declaratoria di mobbing.

Avv. Emanuela Foligno

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