L’ambiente di lavoro insalubre nel cantiere è circostanza pacifica e non rileva che sino agli anni ’90 era sconosciuta la nocività per la salute derivante da esposizione all’amianto
I figli e la vedova del lavoratore deceduto agiscono in giudizio esponendo che il loro congiunto aveva prestato attività lavorativa per più di trent’anni in un ambiente di lavoro insalubre, svolgendo mansioni di manutentore tubista, e che a causa dell’esposizione alle fibre di amianto nell’espletamento delle mansioni assegnategli era risultato affetto da mesotelioma pleurico, che ne ha cagionato il decesso.
Ritenendo sussistere la responsabilità del datore di lavoro per la patologia contratta, i familiari chiedono il risarcimento del danno biologico e morale sofferto in vita dal defunto, oltre al danno catastrofale.
La vicenda è stata trattata dal Tribunale di Venezia (Sez. Lavoro, sentenza n. 222 del 16 settembre 2020), che ritiene il ricorso fondato.
Dalla CTU medico legale emerge che il lavoratore era affetto in vita da mesotelioma sarcomatoide, altamente compatibile con la pregressa esposizione ad amianto in ambito lavorativo.
Inoltre, i documenti prodotti in causa, non lasciano dubbi sulla nocività dell’ambiente lavorativo in cui ha operato il lavoratore presso i cantieri navali.
L’uomo ha sempre svolto mansioni di operaio tubista ed ha operato sia in officina, sia a bordo nave, occupandosi in particolare in officina “di piccoli lavori di ammagliatura con gru, manipolazione di tubi diritti con prelievo, tracciatura, taglio manuale, a macchina e/o ossiacetilenico, composizione manuale e/o automatica in linea o sulle piattaforme di flange ed altri accessori”.
A bordo nave, inoltre, i tubisti partecipavano all’assemblaggio dei sotto – assiemi per formare i blocchi, ossia segmenti di nave molto pesanti, che venivano poi parzialmente allestiti con la sistemazione di tubi, scale ed altro.
La massiccia esistenza di fibre di amianto presso gli ex Cantieri Navali Breda è ormai fatto notorio -specifica il Tribunale- ed è in ogni caso ben documentata dalla nota della Sezione di P.G. della Procura della Repubblica di Venezia del 20 ottobre 2003 e dall’estratto della CTU collegiale disposta nell’ambito delle indagini del procedimento penale del 2005 che si è concluso con sentenza di condanna a carico dei dirigenti Fincantieri sia in primo, sia in secondo grado.
Nello specifico, la CTU evidenzia che, almeno fino all’inizio degli anni ’90 e senza alcun particolare accorgimento in tema di protezione delle maestranze, le condizioni lavorative dello stabilimento sono state “ben al di sotto degli standard richiesti per la lavorazione in presenza di una sostanza cancerogena”.
La presenza dell’amianto presso l’intero cantiere, con conseguente coinvolgimento di tutte le maestranze, del resto, è descritta nelle conclusioni cui sono pervenuti i Consulenti del Pubblico Ministero:
“Per quanto riguarda l’esposizione ad amianto dei dipendenti del cantiere è possibile affermare che questa sia stata per buona parte causata dall’aver lavorato in contemporanea con le operazioni di coibentazione eseguite da ditte esterne. I dipendenti utilizzavano inoltre materiali contenenti amianto come ausilio alle operazioni che dovevano effettuare. Tutto ciò avveniva senza le adeguate protezioni individuali. Le concentrazioni di amianto aerodisperse e di conseguenza il livello di esposizione non è mai stato monitorato ma a seguito delle indagini svolte è possibile affermare che l’inquinamento si è mantenuto a livelli molto alti per un lungo periodo di tempo. I datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti nonché i medici del lavoro aziendali non hanno mai fornito informazioni circa la pericolosità dell’amianto”(…).
Le condizioni in cui operavano i lavoratori del cantiere navale, tra cui anche i tubisti, trovano ulteriore conferma nelle deposizioni testimoniali rese in seno al giudizio civile instaurato nel 2006 da altri lavoratori.
Alla luce della documentazione acquisita il Tribunale non ritiene contestabile l’esposizione massiccia del lavoratore deceduto all’inalazione di fibre di amianto.
Per contro, era onere della convenuta società datrice di lavoro fornire elementi di segno contrario, che non sono stati allegati.
Numerose le violazioni di legge compiute dalla datrice di lavoro, che il Tribunale enuclea con estrema precisione, addivenendo alla considerazione conclusiva che risulta inequivocabilmente violato il precetto generale di cui all’art. 2087 cc.
Specifica il Tribunale che non ha alcuna rilevanza la circostanza che sino agli anni ’90 era pressoché sconosciuta la nocività dell’amianto.
In realtà il legislatore già nel 1943, con la legge n. 455, ha riconosciuto la nocività dell’amianto, estendendo la tutela assicurativa obbligatoria delle malattie professionali alla silicosi e all’asbestosi.
Pacifico, pertanto, il diritto dei familiari, in qualità di eredi, al risarcimento del danno non patrimoniale iure hereditatis, che si configura innanzitutto come lesione del bene salute, costituzionalmente tutelato.
Per il danno terminale viene liquidato l’importo di euro 30.000,00, quanto al danno biologico patito dal lavoratore il Tribunale richiama le conclusioni del CTU.
La società datrice viene condannata a corrispondere ai familiari del lavoratore, in qualità di eredi, e in proporzione alle rispettive quote ereditarie, euro 115.143,00 a titolo di risarcimento del danno iure hereditatis, oltre agli interessi legali, previa rivalutazione monetaria.
Avv. Emanuela Foligno
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