Deve essere liquidato in via equitativa il danno alla professionalità subita dal lavoratore dipendente a causa del demansionamento oeprato dal proprio datore di lavoro

La vicenda

La Cassazione, Sezione Lavoro (sentenza n. 16595/2019) ha ritenuto fondata la richiesta di risarcimento del danno derivante da dequalificazione professionale per violazione dell’art. 2103 c.c. avanzata da un lavoratore nei confronti dell’azienda datrice di lavoro, per il demansionamento dal ruolo di dirigente a quello di addetto alla linea di supporto, durato sino all’estinzione del rapporto di lavoro.

L’2103 c.c.. prevede che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto… ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”.

Si tratta di protezione tradizionalmente intesa come di contenuto inderogabile, rispetto alla quale dell’art. 2103 c.c., comma 2, sancisce la nullità di ogni patto contrario.

La norma è violata tutte le volte in cui il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori, ledendo in questo modo le norme che tutelano la libertà e la dignità del lavoratore nei luoghi ove svolge la propria attività, nonché il sistema di tutela del suo bagaglio professionale.

In tale contesto, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (fra le altre v. Cass. 10.6.2004 n. 11045). Invero la violazione dell’art. 2103 c.c., può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è, di certo, bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro (Cass. cit. n. 12253/2015).

La liquidazione del danno professionale

Con riferimento al tema della prova e della liquidazione del danno professionale, è consolidato il principio di diritto in base al quale il giudice del merito può desumere l’esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (vedi ex plurimis, Cass. 26.2.2009 n. 4652, Cass. 19.9.2014 n. 19778).

È stato anche chiarito che “il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorra automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma possa essere provato dal lavoratore anche mediante il meccanismo presuntivo attraverso l’allegazione di elementi gravi, precisi e concordanti” (vedi da ultimo, Cass. 3.1.2019 n. 21).

Una volta adempiuto l’onere di allegazione da parte del lavoratore, spetta al giudicante il compito di procedere alla quantificazione del danno, anche in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c..

Ma cosa si intende per giudizio in via equitativa?

I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata (Cass. n. 12253/2015), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato.

In tale prospettiva, si è infatti sottolineato come la liquidazione equitativa, anche nella sua forma c.d. “pura”, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fatti di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato in motivazione, a rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento (argomentata da Cass. 13.9.2018 n. 22272). Al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario quindi che il giudicante indichi, almeno sommariamente e nell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum” (cfr. Cass. 31.1.2018 n. 2327).

La decisione

Ebbene, nella fattispecie in esame, la Corte di merito aveva violato i principi enunciati, laddove procedendo alla rinnovata liquidazione del danno alla professionalità risentito dal lavoratore – già liquidato in prime cure nella misura del 50% – aveva tout court provveduto a ridurlo nella misura del 30%, richiamandosi semplicemente alla prassi invalsa presso il distretto territoriale, senza procedere ad una enunciazione più specifica dei criteri applicati, né all’adeguamento della liquidazione alle particolarità del caso concreto.

Ebbene, ad avviso degli Ermellini – la diminuzione del risarcimento del danno patrimoniale liquidato in favore del lavoratore rispetto a quello definito dal giudice di prima istanza, non risultava per nulla congrua, perché non sorretta da una adeguata motivazione idonea a rendere ragione della riforma operata.

 Avv. Sabrina Caporale

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