Confermata in Cassazione la condanna di una donna che aveva dato della ‘cornuta’ a un’altra utente in rete

Una donna decideva di ricorrere in Cassazione dopo essere stata condannata sia in primo grado che in appello per il reato di diffamazione. Nello specifico l’imputata aveva inviato una serie di messaggi, tramite social network, apostrofando come ‘cornuta’ la vittima che poi l’aveva chiamata in causa.
La ricorrente, nell’impugnare la decisione del giudice di secondo grado, sottolineava la mancata analisi dell’elemento soggettivo del reato, oltre che la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’articolo n. 131 bis del codice penale.
La Suprema Corte, tuttavia, con la sentenza n. 2723/2017 non ha ritenuto di accogliere le argomentazioni dell’imputata partendo dal presupposto che ormai la natura dei social network rende la divulgazione di un messaggio potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di persone che peraltro utilizzano tali strumenti allo scopo di instaurare e coltivare relazioni interpersonali allargate ad un gruppo di frequentatori non determinato.
Riguardo alle doglianze della ricorrente gli Ermellini hanno chiarito, in riferimento all’elemento soggettivo del delitto, che per l’integrazione del reato di diffamazione basta il dolo generico,  ovvero l’utilizzo consapevole di espressioni che, dato il significato oggettivamente assunto, sono ritenute offensive nel contesto sociale di riferimento.
Quanto invece alla tenuità del fatto, i giudici del Palazzaccio hanno osservato che l’imputata avrebbe dovuto sollecitarne l’applicazione nel precedente grado di giudizio; tale possibilità, infatti, viene meno in terzo grado in quanto, secondo il disposto dell’articolo 609, comma 2, del codice di procedura penale, la sua applicabilità non può essere dedotta per la prima volta in Cassazione se, alla data della deliberazione della sentenza d’appello, l’articolo 131-bis del codice penale era già in vigore.
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