Il tenore di vita goduto durante il matrimonio non è l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile

Cassazione, ordinanza n. 6433/2016

Avverso la sentenza che disponeva la cessazione degli effetti civili del matrimonio, pronunciata in sede di appello, con obbligo previsto a carico dell’ex marito di corrispondere un assegno divorzile di euro 590,00 mensili in favore della moglie, lo stesso proponeva ricorso per cassazione.

A sostegno dell’impugnazione medesima quest’ultimo, deduceva la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge 1° dicembre 1970 n. 898, adducendo che, ai fini del riconoscimento e della determinazione dell’assegno, la sentenza impugnata non aveva tenuto conto della capacità lavorativa della donna, comprovata – peraltro – dalla sua giovane età e dalla titolarità di un impiego retribuito, né dalla sua possibilità di aspirare ad un’occupazione più adeguata alle sue esigenze economiche, (…) oltre ad aver trascurato la breve durata del rapporto coniugale, che aveva impedito la maturazione di aspettative in ordine al mantenimento di un elevato standard di vita.

A fronte della richiesta di applicazione di equità e giustizia sostanziale, la Cassazione respinge il ricorso, rigettando il già citato motivo di impugnazione, perché del tutto infondato.

«Ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno – chiariscono i giudici ermellini – la giurisprudenza di legittimità, ha da sempre sostenuto il principio che, nell’ambito dell’accertamento al diritto all’assegno divorzile, si distinguono due fasi: la prima, diretta a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, e la seconda volta alla determinazione in concreto dell’assegno, sulla base delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla condizione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune,nonché del reddito di entrambi, da valutarsi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. Cass., Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870; 15 maggio 2013,n. 11686; 4 ottobre 2010, n. 20582).

È compito del giudice, perciò effettuare, di volta in volta, una valutazione ipotetica ed astratta, ove non risulti sufficiente, dimostrare il possesso di un’effettiva capacità reddituale, dovendosi piuttosto tener conto delle concrete prospettive occupazionali connesse a fattori di carattere individuale ed alla situazione ambientale, nonché delle reali opportunità offerte dalla congiuntura economico-sociale in atto (cfr. Cass., Sez. I, 23 ottobre 2015, n. 21670; 17 gennaio 2002, n. 432; 19 luglio 1980, n. 4741). (…)

Ebbene, a giudizio della Suprema Corte, nel valutare l’adeguatezza delle risorse economiche a disposizione della donna, il giudice di merito, aveva correttamente tenuto conto della capacità lavorativa della stessa, la quale a seguito della separazione dal coniuge aveva trovato occupazione come lavoratrice dipendente. Lo stipendio percepito, tuttavia, non le consentiva di mantenere un tenore di vita comparabile a quello goduto nel corso della convivenza; tenuto conto, altresì delle difficoltà a reperire un’occupazione adeguata, in conseguenza della sua età e dell’attuale situazione di crisi economica.

Si noti che in una recente sentenza (n. 11 dell’11 febbraio 2015), la Corte Costituzionale, si è espressa in materia, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze in relazione alla norma di cui all’art. 5 della legge sul divorzio in materia di riconoscimento di assegno divorzile.

A detta del Tribunale toscano, l’art. 5, comma 6° della legge n. 898/70 contrasterebbe con gli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione. In particolare, quanto all’art. 2, la violazione sarebbe da individuarsi in un “eccesso di solidarietà” dal momento che impone l’obbligo di far mantenere le stesse condizioni godute nel matrimonio al coniuge debole, ben oltre il matrimonio, anche per tutta la vita. In relazione all’art 3, per “contraddizione logica” fra lo scopo del divorzio che è quello di fare cessare il matrimonio e i suoi effetti, e quello della previsione del mantenimento, che spinge molto lontano dal momento del matrimonio, il concetto di tenore di vita in costanza di matrimonio. E contro l’art. 29 Cost. perché l’obbligo, così configurato, sarebbe addirittura anacronistico in relazione all’evoluzione sociale della famiglia, del ruolo dei coniugi e dell’incidenza dei divorzi.

La questione per la Corte Costituzionale è stata ad ogni modo giudicata manifestamente infondata, per il semplice fatto che il tenore di vita goduto durante il matrimonio non è l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. L’art. 5 comma 6 indica, infatti, una serie di elementi che il giudice deve prendere in considerazione, quali la condizione e il reddito dei coniugi, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, la durata del matrimonio e le ragioni della decisione.

Secondo il consolidato orientamento della Cassazione tutti i criteri “agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto” e possono anche ad azzerarla (Cass. Civ. n. 2546/2014, Cass. Civ. n. 24252/2013 e Cass. Civ. n. 23797/2013).

È importante tenere sempre presente che dal momento della separazione la vita dei due coniugi muta radicalmente sotto diversi aspetti, non ultimo quello relativo alle condizioni economiche cui marito e moglie si trovano a fare fronte. Infatti, se durante la vita coniugale il menage familiare è sorretto dalle risorse di entrambi, ossia del contributo che ciascuno mette a disposizione del nucleo, dopo la separazione ciascuno deve far fornte alle proprie esigenze e bisogni autonomamente e con le proprie risorse. (Rossi).

Tali aspetti rilevano ai fini del mantenimento, e la giurisprudenza non li ha ignorati, specificando che la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio è obiettivo solo tendenziale cui deve mirare il riconoscimento del diritto in questione a favore di uno dei coniugi (Cass. 30.3.2005, n. 6712; Cass. 28.4.2006, n. 9878).

Non si può, infatti, non tener conto dell’inevitabile depauperamento che consegue alla rottura dell’unione, derivante dall’abbassamento generale delle risorse economiche su cui i coniugi, non più famiglia, possono fare affidamento.

A tal riguardo, è opportuno ricordare che il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l’assegno di divorzio deve essere sempre rapportato al tenore di vita goduto durante il matrimonio, che è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, e non già allo stile di vita concretamente condotto in base a scelte di rigore caratterizzate da “self-restrainment”. (cfr. Cass Civ., Sez. I, 16 maggio 2005, n. 102010).

A questa prima osservazione, occorre ribadire che in tema di effetti della separazione personale sui rapporti patrimoniali tra coniugi, la conservazione del precedente tenore di vita da parte del coniuge beneficiario dell’assegno e della prole, costituisce un obiettivo solo tendenziale, poiché non sempre la separazione ne consente la piena realizzazione, notorio essendo che essa riduce anche le possibilità economiche del coniuge onerato e che soltanto dall’appartenenza al consorzio familiare derivano ai coniugi e alla prole vantaggi – in termini, soprattutto, di contenimento delle spese fisse – riconducibili a economie di scala ed altri risparmi connessi a consuetudini di vita comune. Detto obiettivo, pertanto, va perseguito nei limiti consentiti dalle condizioni economiche del coniuge obbligato e dalle altre circostanze richiamate dall’art. 156, comma 2, c.c., con la precisazione che, in ogni caso, la determinazione di tali limiti è riservata al giudice di merito, cui spetta la valutazione comparativa delle risorse dei due coniugi al fine di stabilire in quale misura l’uno debba integrare i redditi insufficienti dell’altro (Cass., 28.4.2006, n. 9878; Cass. 16.11.2005, n.23071).

Ne consegue la necessità di fuggire da ogni «rigidità» nella valutazione dell’adeguatezza dei redditi, del coniuge beneficiario, riconoscendo che al mantenimento in molti casi non può essere attribuita altra funzione se non quella di rendere equivalenti le condizioni di vita dei coniugi, ma ad un livello inferiore rispetto a quello che caratterizzava la convivenza (Calogero, 2002).

Avv. Sabrina Caporale

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3 Commenti

  1. Buongiorno,

    Mi chiamo Maria,
    Io e mio marito siamo in regime di separazione dei beni, ci siamo sposati nel 1991 ed abbiamo 2 figli rispettivamente di 21 e 24 anni (non ancora indipendenti in quanto frequentano l’università).
    Nel 2007 ha chiesto la separazione perchè ha conosciuto una nuova compagna da cui ha avuto una figlia nel 2008.
    Abbiamo sottoscritto una separazione consensuale regolando però solo gli aspetti riguardanti il mantenimento mio e dei figli e non la divisione del patrimonio.
    La sottoscritta ha lavorato per anni con ruoli apicali, dal 1991 al 2008 (anno di separazione) nelle aziende di famiglia senza percepire ne stipendio ne utili e senza che sia stato configurato nessun rapporto di lavoro.
    Nel 2008 son stata estromessa dal marito dall’azienda in cui lavoravo perciò ho avuto un ulteriore danno perché mi sono trovata senza lavoro.
    Con i proventi dell’attività, utili indivisi e stipendi non percepiti, mio marito si è acquistato una gran parte del patrimonio dai suoi fratelli, ovvero:
    – Azienda A (sas) – dal 35% al momento del matrimonio fino al 90% + 10% intestato a me.
    – dal 50% al momento del matrimonio fino al 100 % della casa coniugale
    – Azienda B (snc) – dal 50% al momento del matrimonio fino al 100%
    Tutto questo con soldi provenienti dall’attività per cui io ho lavorato senza nessun stipendio né utile, pensando a costituire un patrimonio per la famiglia.
    Ora cosa posso fare?
    I beni acquistati in regime di separazione dei beni ma con soldi provenienti dal lavoro di entrambi i coniugi ed intestati solo ad uno dei due come vanno divisi?
    Che incidenza ha il patrimonio a lui intestato per la quantificazione dell’assegno divorzile visto che nella causa di divorzio avviata nel 2014 è stato richiesto solo l’assegno di mantenimento?
    In quale modo posso recuperare le somme relative agli utili indivisi e agli incrementi?
    Grata dei consigli che vorrete darmi, porgo cordiali saluti.

  2. Buonasera
    Sono divorziata dal 2013 il mio ex marito versa in banca 400 euro di assegno divorzile versato nel conto del mutuo che non copre il mutuo dell appartamento intestato a me che mi è rimasto dopo che lui mi ha fatta fuori dalla sua casa (matrimoniale dove ho vissuto dal 90 al 2009) ho dovuto affittare l appartamento a 360euro al mese e sono ospite a casa da un amica . Oltretutto il mutuo e indietro di alcune rate perch dopo la separazione lui mi ha chiuso i conti e sbattuta fuori dal nostro lavoro (società creata insieme )….lui adesso continua nell attività creta insieme si ha fato una nuova vita a un altro figlio e io nella merda … scusate la parola . ditemi se posso fare qualcosa per pareggiare i conti .
    grazie

  3. “Ne consegue la necessità di fuggire da ogni «rigidità» nella valutazione dell’adeguatezza dei redditi, del coniuge beneficiario, riconoscendo che al mantenimento in molti casi non può essere attribuita altra funzione se non quella di rendere equivalenti le condizioni di vita dei coniugi, ma ad un livello inferiore rispetto a quello che caratterizzava la convivenza (Calogero, 2002)”

    Da cio’ discende in pratica che una societa’ giusta e saggia abolirebbe l’istituzione del matrimonio.

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