Disturbo dell’adattamento e depressione da mobbing (Cassazione civile, sez. lav., dep. 09/02/2023, n.3967).
Disturbo dell’adattamento e depressione del lavoratore per il mobbing subito.
La Corte di Appello di Roma respinge l’appello principale proposto dal datore di lavoro e accoglie parzialmente quello incidentale proposto dal lavoratore, riformando la sentenza di primo grado con la condanna del Comune datore di lavoro a corrispondere alla lavoratrice a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale un importo maggiore, compensando per 1/4 le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio e condannando il Comune a corrispondere i rimanenti tre quarti, oltre alle spese di CTU.
I Giudici di appello hanno sintetizzato la decisione di primo grado: limitato il thema decidendum ai soli fatti accaduti prima dell’instaurazione della lite, ha ammesso i certificati medici formati dopo la proposizione del ricorso, ha ritenuto provato il mobbing con riferimento solo a taluni episodi posti in essere da determinati dipendenti comunali e, in talune circostanze, anche dal Sindaco dell’epoca, ha ritenuto provato sulla base della CTU il nesso causale tra la condotta mobbizzante ed il disagio psichico, da marzo 2004, con danno biologico del 5%, mentre ha respinto la domanda di risarcimento del danno da dequalificazione e accolto quella di svolgimento di mansioni superiori nel periodo gennaio 2007-marzo 2009, con riconoscimento delle sole differenze retributive e non già della superiore qualifica pure rivendicata.
Ammesso ed espletato il rinnovo della CTU, ha ravvisato una diversa e maggiore percentuale di danno biologico (da cinque ad otto per cento) nonché un’estensione dell’invalidità temporanea al cinquanta per cento ampliata a dodici mesi, quest’ultima non riconoscibile in difetto di specifica impugnazione della lavoratrice; in relazione al riconosciuto aumento del danno biologico, ha incrementato la liquidazione del danno non patrimoniale, già accordato nella sentenza di primo grado senza impugnazione del Comune; ha respinto il motivo di appello relativo allo svolgimento delle mansioni superiori, in base all’esito dell’istruttoria.
Il Comune impugna la decisione in Cassazione lamentando, per quanto qui di interesse, la violazione degli artt. 2087 e 2967 c.c. nonché artt. 115 e 116 c.p.c. sull’onere della prova del mobbing e sulle condotte poste in essere dal Sindaco nei confronti del dipendente.
Le due censure sono infondate.
La Corte territoriale ha correttamente attribuito l’onere della prova alla lavoratrice, e ha circoscritto gli episodi rispetto ai quali ha ritenuto raggiunta la prova della configurabilità del mobbing.
Anche gli elementi posti alla base del riconoscimento di condotte mobbizzanti, secondo i consolidati principi giurisprudenziali, sono stati correttamente evidenziati dai Giudici di secondo grado.
Per quanto concerne la persona del Sindaco, la Corte territoriale ha correttamente disatteso la censura già svolta in grado di appello (“il Tribunale avrebbe errato nell’individuare il Sindaco come datore di lavoro, laddove la disciplina del pubblico impiego, a suo dire, “designa come datore di lavoro il Dirigente mentre assegna al Sindaco un ruolo politico di indirizzo, che esclude, pertanto, tale figura dai superiori gerarchici del lavoratore.””).
Difatti, il datore di lavoro della danneggiata è indiscutibilmente l’ente territoriale, il cui legale rappresentante ex lege è il Sindaco. Lo stesso, dunque, non può dirsi estraneo al rapporto di lavoro.
Inoltre, aggiunge la Suprema Corte, discorrendo di mobbing, la circostanza che la condotta provenga da altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non esclude la responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo.
Avv. Emanuela Foligno
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