Ernia addominale e peritonite non diagnosticate (Tribunale Reggio Calabria, sez. II, 03/11/2022, n.1244).

Ernia addominale e peritonite non diagnosticate è quanto lamentato dai congiunti della vittima.

Vengono citati a giudizio tre Medici per sentire “1) dichiarare, in conformità alla decisione del Tribunale penale e della Corte di Appello n° 1077/05 del 23/6/05 depositata il 15/7/2005, la solidale responsabilità dei convenuti per avere cagionato la morte del paziente per imprudenza, negligenza, imperizia; 2) condannare per l’effetto i convenuti in solido tra loro al risarcimento dei danni nella misura da determinarsi detraendo l’acconto di E. 100.000,00; oltre interessi e rivalutazione fino al soddisfo per danno patrimoniale pari ad E. 75.718,82, morale biologico totale e parziale della vittima e biologico degli attori, esistenziale e quant’altro previsto dalla legge; 3) condannare i convenuti in solido tra loro al pagamento di spese e competenze, rimborso forfettario, CPA e IVA”.

Gli attori deducono: che il Giudice monocratico aveva dichiarato il primario e aiuto della Divisione di Chirurgia, e un terzo Medico, quale sanitario di turno, colpevoli della morte del loro congiunto per non avere prontamente diagnosticato, pur in presenza di elementi sintomatici, un’ernia addominale strozzata e successivamente ridotta, una peritonite stercoracea secondaria a rottura intestinale e, conseguentemente, per non avere prontamente predisposto un intervento laparatomico finalizzato a rimuovere la causa infettante.

L’intervento, infatti, era stato effettuato solo il giorno successivo al ricovero, così consentendo il diffondersi di uno shock settico dal quale era derivata la morte del paziente.

I tre Medici imputati venivano condannati alla pena di mesi otto di reclusione, oltre al pagamento, in solido tra loro, delle spese processuali e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, nonché al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva nella misura di euro 20.000,00 per ognuna delle parti civili.

La decisione veniva impugnata in appello e la Corte, riformando la sentenza impugnata, aveva concesso agli appellanti le attenuanti generiche, stante la loro incensuratezza, e aveva poi dichiarato la prescrizione del reato e confermato le statuizioni civili, condannando gli appellanti al pagamento delle spese del giudizio.

Riassumendo, al Pronto Soccorso dell’ospedale era stata diagnosticata un’ernia addominale strozzata e il paziente veniva inviato alla Chirurgia d’urgenza. Dopo la visita, i Medici, praticavano un intervento di riduzione manuale dell’ernia addominale, apparentemente con esito positivo; tuttavia, i ripetuti tentativi di riduzione avevano provocato una piccola lacerazione della parete del sigma, tanto che il paziente, dopo la riduzione, aveva continuato ad avvertire dolori all’addome e forte mal di testa, sentiva lo stimolo a defecare e percepiva un forte freddo, avendo una temperatura di 38 gradi. Detti sintomi, che avrebbero dovuto essere letti quale espressione del diffondersi del processo settico in un malato a cui era stata praticata una manovra a rischio, erano stati invece interpretati dal Medico di turno notturno come una reazione allergica alla flebo e inutilmente arginati, intorno alle ore 22.00, con la somministrazione di una fiala di Bentelan. Nel corso della notte le condizioni del paziente peggioravano,  ma il sanitario di turno non aveva allertato l’équipe di chirurgia, ritenendo di tamponare la situazione e le continue crisi di vomito con un sondino naso-gastrico e un catetere. Intorno alle 04:00  la situazione era ulteriormente precipitata, con collasso del paziente, il Medico di turno contattava il Chirurgo di turno il quale, ritenendo la situazione non urgente, rinviava qualsiasi intervento al mattino successivo.

Il mattino successivo il paziente veniva visitato dal Primario e solo alle ore 12:10 del 17.1.1995 veniva operato limitatamente alla sutura della lacerazione intestinale e al lavaggio del cavo addominale senza la riduzione dell’ernia addominale.

Il paziente veniva trasferito in Rianimazione e dopo sei giorni di agonia decedeva.

Il Giudice penale di primo grado, correttamente, in base alle risultanze della consulenza delle parti civili, d’ufficio e degli imputati, riteneva questi ultimi tutti egualmente responsabili della morte.

Anche la Corte di Appello riteneva sussistente la piena responsabilità dei convenuti, i quali, con le loro condotte, improntate ad una evidente negligenza e superficialità, avevano ugualmente concorso alla verificazione dell’evento lesivo, causalmente riconducibile ad uno stato settico generalizzato conseguente alla lesione traumatica del sigma; che invero, nella fase iniziale, il  sanitario di turno, non aveva tempestivamente compreso i sintomi prodromici allo stato di shock, tanto da intervenire con un farmaco inutile; che a tale condotta era seguita quella, altrettanto superficiale, del chirurgo di turno, il quale, avvertito dello stato di grave criticità del malato, aveva rimandato qualsiasi accertamento, e infine quella del primario, il quale, pur avendo visitato il paziente alle ore 8:30-9:00, aveva effettuato l’intervento solo alle ore 12:10.

Nel corso del giudizio viene autorizzata la chiamata in causa delle Assicurazioni e dell’Azienda Ospedaliera.

Preliminarmente, per quanto riguarda i danni asseritamente subiti dagli attori iure proprio, la dedotta responsabilità dei sanitari convenuti viene qualificata quale responsabilità extracontrattuale, con conseguente onere per il danneggiato di fornire prova di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c.

Per quanto riguarda invece i danni invocati dagli attori iure hereditatis, la dedotta responsabilità dei sanitari convenuti deve essere qualificata quale responsabilità contrattuale da contatto sociale ex art. 1173 c.c. e 1218 c.c.

I consulenti tecnici d’ufficio nominati dal G.I.P. hanno chiarito che “trova piena giustificazione ed inequivocabile fondamento dimostrativo il giudizio espresso dai sanitari del reparto di rianimazione che formularono la diagnosi di causa di morte identificandola in uno shock settico in paziente con peritonite stercoracea determinata da rottura dell’intestino sigma trattata chirurgicamente”.  

Non si ritiene invece condivisibile la ricostruzione indicata dai periti incaricati dal Pubblico Ministero, secondo i quali il decesso è stato determinato da un arresto cardio circolatorio insorto a causa di un grave shock endotossinico.  

Secondo quanto indicato dai C.T.U. “in caso di peritonite secondaria ad una rottura intestinale, come ben comprensibile, si rende necessario un intervento il più sollecito possibile indirizzato a liberare rapidamente il cavo addominale dal contenuto infetto che esce dal lume intestinale, correggere la rottura dell’intestino, instaurare una terapia antibiotica anche locale per tentare di bloccare l’azione batterica …….. l’unica funzione di prognostica positiva nella peritonite di tipo perforativo è il tempo nel quale si interviene”.

È dunque evidente che il sanitario di turno ha trascurato – o comunque non ha riconosciuto – nel paziente i sintomi prodromici al successivo stato di shock settico e che, alle ore 04:00 del 17.1.1995, accertato lo stato di shock settico causato da peritonite, l’operazione chirurgica avrebbe dovuto essere eseguita immediatamente, essendo questa l’unica condotta idonea a salvare la vita del paziente.

Tutto ciò considerato, è possibile concludere che, alle ore 04:00 del 17.1.1995, accertato lo stato di shock settico – peraltro certamente preceduto da sintomi prodromici non correttamente identificati e trattati – il paziente avrebbe dovuto essere operato immediatamente, essendo questa l’unica condotta idonea a salvargli la vita, dovendosi viceversa considerare colpevole ogni ritardo nell’esecuzione dell’intervento chirurgico (posto in essere, nella specie, solo nella tarda mattinata del 17.1.1995, intorno alle ore 12:10.

In questo quadro, il Medico di turno nella notte tra il 16.1.1995 e il 17.1.1995, non ha precocemente diagnosticato lo stato settico in corso, non impedendo così l’insorgenza dello stato di shock. Il chirurgo reperibile quella notte, contattato dal Medico di turno, non ha poi correttamente valutato l’obiettiva ed evidente gravità delle condizioni a seguito dell’insorgenza dello stato di shock, decidendo di non visitare personalmente il paziente e di rimandare l’intervento al mattino successivo. Il Primario del reparto che ha avuto cognizione delle condizioni disperate in cui versava il paziente intorno alle ore 08:30-9:00 del 17.1.1995, ha infine eseguito l’intervento solo in tarda mattinata (alle ore 12:10, per come emerge dalla cartella clinica), ritardando così ancora di più l’esecuzione dell’unica condotta che avrebbe salvato la vita al paziente.

Le condotte dei convenuti, tutte caratterizzate da un’evidente grave negligenza, concatenandosi tra loro, hanno consentito il diffondersi nel paziente di quello stato settico generalizzato conseguente alla lesione traumatica del sigma che lo avrebbe poi condotto alla morte, non essendo stato tempestivamente eseguito l’intervento chirurgico, cioè l’unica condotta che era idonea a salvargli la vita.

Accertata, pertanto, la responsabilità di tutti i sanitari convenuti a giudizio.

Avv. Emanuela Foligno

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