Ernia discale lombare non riconosciuta dall’Inail malattia professionale ma accertata dal CTU in primo grado. (Cassazione Civile, Sez. lav., Sentenza n. 452 depositata il 10/01/2022)

Ernia discale lombare contestata dall’Inail di derivazione professionale.

Il Tribunale di L’Aquila condannava l’Inail a indennizzare come malattia professionale la patologia di ernia discale lombare accertata nel lavoratore.

La Corte d’Appello di L’Aquila, in riforma della sentenza del Tribunale, ha accolto il ricorso dell’INAIL diretto a sentire dichiarare non dovuto l’indennizzo per danno da malattia professionale (ernia discale lombare) in favore del lavoratore, operaio addetto alla movimentazione di carichi con carrello manovrato a mano.

La Corte territoriale ha affermato che gli esiti dell’istruttoria conducono a un ridimensionamento della gravosità del lavoro svolto, in particolare: il carrello era usualmente utilizzato in coppia con altro lavoratore; la distanza di percorrenza non era di 100 metri bensì di 20-30 metri; la gran parte dei pacchi movimentati non superava il peso di 10 kg.

Pertanto, il fatto che il lavoratore non fosse soggetto a una seria esposizione al rischio, ha indotto i Giudici di secondo grado ad escludere la sussistenza del nesso causale tra la malattia diagnosticata e le mansioni espletate.

La Corte d’Appello, ha valutato con attenzione le modalità di svolgimento delle mansioni lavorative del ricorrente, arrivando a dedurre che quella gravosità indicata dal lavoratore, in realtà era stata sopravalutata dal primo Giudice.

Il lavoratore ricorre in Cassazione, lamentando “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; nel senso che il Giudice d’Appello avrebbe omesso di valutare talune significative circostanze che sarebbero emerse in seguito all’istruttoria svolta in primo grado, che, se apprezzate, avrebbero condotto al riconoscimento del beneficio richiesto.

Con il secondo e terzo motivo deduce, rispettivamente, omessa indicazione dei motivi della decisione e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Il primo motivo è inammissibile.

Viene contestato il difetto di motivazione senza alcun riferimento all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario.

Le Sezioni Unite, sul punto, hanno chiarito che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Sez. Un. n. 8053/2014).

Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

Secondo costante giurisprudenza di legittimità, al fine di dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il Giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c..

Il principio sopra menzionato deve essere letto in correlazione con l’altro, secondo cui: “In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, bensì un errore di fatto, censurabile, semmai, attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 de 2012, art. 54, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012“.

La doglianza prospettata dal ricorrente manifesta l’intento di contrastare, inammissibilmente, l’esito del giudizio di appello perché difforme dalle proprie attese.

Anche il terzo motivo è inammissibile.

La Corte d’Appello ha correttamente considerato l’esito della CTU medico legale, che valutava le modalità di esercizio della prestazione con riferimento all’inferiore distanza di percorrenza del dispositivo mobile, ovvero alla circostanza che l’attività fosse svolta in coppia con altro lavoratore.

Ed è proprio da tali elementi che la Corte territoriale ha tratto il convincimento di un ridimensionamento della gravosità del lavoro tale da escludere la sussistenza del nesso causale tra la malattia diagnosticata di ernia discale lombare e le mansioni espletate.

La Corte d’Appello ha dato atto che il CTU incaricato, ritenendo di non poter fornire un giudizio motivato sull’esposizione al rischio, aveva indicato che il riconoscimento della matrice professionale rimaneva subordinato alla conferma dell’anamnesi lavorativa emersa dalla prova testimoniale, concludendo sul punto che quest’ultima aveva disatteso la tesi formulata dalla parte appellata.

In buona sostanza, non è risultato provato che la ernia discale lombare di cui il ricorrente è affetto derivi dall’attività svolta, Difatti, lo svolgimento delle mansioni indicate dal ricorrente, non ha trovato conferma nelle prove testimoniali.

Conseguentemente, la doglianza sull’asserita omessa motivazione circa l’entità dell’esposizione al rischio ai fini del riconoscimento della copertura assicurativa Inail si rivela del tutto priva di pregio.

La redazione giuridica

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