Feto con spina bifida e omessa comunicazione della malformazione (Cassazione civile, sez. III,  dep. 31/01/2023, n.2798).

Feto con spina bifida e omessa comunicazione ai genitori della malformazione.

I genitori della bambina citano a giudizio il Presidio ospedaliero al fine di ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, determinati dall’omessa individuazione, durante la gravidanza, della gravissima malformazione (feto con spina bifida), con conseguente impossibilità di procedere all’aborto terapeutico, possibile se si fosse data tempestiva comunicazione della malformazione.

La bambina era nata affetta da mielomeningocele localizzato in regione lombosacrale e nel corso della gravidanza, nello specifico tra la diciannovesima e la ventunesima settimana di gravidanza, la gestante si era sottoposta a controlli ginecologici ed esami ecografici presso la USSL, senza che i sanitari riscontrassero la grave malformazione.

Veniva svolta CTU medico legale per l’accertamento della responsabilità dei sanitari, poi oggetto di un successivo approfondimento da parte di un altro Consulente. La prima CTU affermava che, in astratto, la patologia di cui era risultata affetta la bambina poteva essere diagnosticata durante la gravidanza attraverso l’esame ecografico e che il periodo in cui erano state effettuate le indagini ecografiche, compreso tra la diciannovesima e la ventiduesima settimana, era l’epoca migliore per lo studio della colonna del feto, raggiungendo l’esame, se condotto con la dovuta perizia, una sensibilità diagnostica del 90%. La seconda CTU riteneva che, in mancanza delle registrazioni delle operazioni eseguite, non era possibile procedere ad una valutazione dell’operato dei sanitari nel caso concreto (che dipendeva non solo dal grado tecnologico del macchinario ma anche dall’estensione dell’indagine e dal tempo dedicato all’esame) e concludeva che, sulla base dei dati statistici ricavabili in letteratura, le possibilità di rilevare la malformazione del feto erano percentualmente uguali alla possibilità di non rilevarla.

Il Tribunale accertava la correttezza dell’operato dei Sanitari e rigettava la domanda. Successivamente, la Corte d’appello di Brescia ha confermato il rigetto della domanda risarcitoria, pur sulla scorta di una diversa motivazione.

La Corte territoriale ha ritenuto che, essendo possibile nel 50% dei casi la percezione tramite ecografia della malformazione da cui era affetta la bambina, era onere della USL provare di avere fatto il possibile per adempiere alla prestazione. I Sanitari non avrebbero fornito una simile prova, mancando sia la registrazione delle specifiche attività seguite, sia la prova della congruità delle immagini acquisite durante lo svolgimento delle ecografie. Né sarebbe stata rilevante la circostanza che il centro dove erano state eseguite le ecografie era di primo livello, essendo la Struttura sanitaria e il Medico obbligati a informare la paziente della possibilità di ricorrere a centri di più elevata specializzazione. L’omessa indicazione dell’esigenza di un ulteriore esame in un centro di più elevata specializzazione avrebbe generato nella paziente la ragionevole convinzione della sufficienza delle indagini espletate. Tuttavia la Corte ha evidenziato che era onere degli attori provare la sussistenza delle condizioni per l’esercizio dell’aborto terapeutico, ovvero, da un lato, che la conoscenza delle effettive condizioni del feto avrebbe determinato l’insorgenza di un pericolo di grave danno alla salute della donna (tale da giustificare l’interruzione di gravidanza) e, dall’altro lato, che la donna, ove informata, avrebbe effettivamente esercitato l’aborto.

I Giudici dell’appello hanno ritenuto provato, seppure in via indiziaria, solo il primo requisito, avendo il CTU accertato ex post un danno biologico del 15% a carico della madre della bambina, ed essendo molto “più probabile che non” che tale danno si sarebbe anticipato se la comunicazione della malformazione fosse stata tempestivamente data.

Non provata, invece, è stata ritenuta la volontà di abortire della donna “non essendo possibile dedurre che, all’informazione sulla gravità della malattia sarebbe, come conseguenza automatica, seguita la decisione di abortire”. Sotto questo profilo, in particolare, i Giudici di appello hanno evidenziato che gli attori non avevano fornito alcun elemento indiziario tale da far ritenere che l’interruzione di gravidanza sarebbe stata la scelta concretamente fatta dalla donna se avesse tempestivamente saputo che trattavasi di feto con spina bifida. Pertanto, in assenza di allegazioni di fatti, o dichiarazioni, da cui ricavare la volontà abortiva della donna alla conoscenza della malformazione, non sarebbe stata ammissibile una CTU diretta ad accertare una simile volontà ipotetica.

La decisione viene censurata in Cassazione. Per quanto qui di interesse, i ricorrenti censurano la decisione sul mancato assolvimento dell’onere di provare il fatto psichico consistente nella volontà dell’attrice di abortire alla notizia della grave malformazione fetale e sulla mancata contestazione da parte della Struttura convenuta.

La censura è infondata.

Risulta evidente che l’allegazione relativa al fatto che la gravida, ove messa a conoscenza della malformazione del feto, avrebbe certamente optato per l’interruzione della gravidanza, non rientrava nella sfera di conoscibilità della Struttura sanitaria e dell’Assicurazione, con la conseguenza che non si poteva imporre loro di assumere una specifica posizione sulla predetta allegazione. L’Azienda sanitaria e la Compagnia non avrebbero potuto contestare specificamente le circostanze dedotte dai ricorrenti al fine di provare l’esistenza della volontà della donna di abortire, consistenti nelle confidenze fatte da quest’ultima ad amici e familiari.

Si tratta di fatti secondari, come tali non soggetti all’epoca dell’introduzione del giudizio, all’obbligo di tempestiva contestazione. Pertanto, non essendo applicabile il principio di non contestazione, non poteva ritenersi pacifica, e avrebbe dovuto formare oggetto di prova, la circostanza che la donna, laddove informata dell’esistenza di malformazioni del feto, avrebbe effettivamente esercitato l’opzione abortiva.

Per tali ragioni è corretto il rigetto della domanda risarcitoria da nascita indesiderata.

Diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, la prova della volontà abortiva non poteva desumersi dalle CTU  che si limitano, invero,  a descrivere lo stato psichico dei coniugi dopo la nascita della bambina, ma non potrebbero certamente chiarire quale sarebbe stata la scelta dei genitori nel caso in cui fossero stati messi a conoscenza della malformazione del feto.

Con il terzo motivo i coniugi lamentano la nullità della sentenza per non aver provveduto in ordine alla domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla violazione dell’obbligo di corretta e tempestiva informazione sulle risultanze dell’ecografia, nonché dalla lesione del diritto della madre all’autodeterminazione, con relativa ripercussione negativa sulla persona del marito.

Il danno da mancata corretta informazione in ordine alle malformazioni del feto, secondo i ricorrenti, si sarebbe risolto, oltre che nella devastante notizia della grave condizione invalidante della bambina, anche in un danno di natura psichica di entrambi i genitori, con rilevanti aspetti negativi sulla vita anche relazionale degli stessi, che costituivano ulteriore e diversa conseguenza rispetto a quella dell’impedimento all’interruzione della gravidanza.

La censura è fondata.

La Suprema Corte conferma, e dà seguito, all’orientamento che ha riconosciuto l’autonoma rilevanza ai fini della eventuale responsabilità risarcitoria della mancata prestazione del consenso da parte del paziente.

Tale orientamento ha espressamente ritenuto che la violazione del dovere di informare il paziente può causare due diversi tipi di danno: 1)un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; 2) un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Tali principi possono ritenersi in astratto applicabili anche quando l’omessa diagnosi non riguarda una patologia ad esito infausto, bensì, come nel caso oggetto di esame, una malformazione del feto. In questo caso, i danni risarcibili potrebbero consistere anche nell’impossibilità per i genitori di assumere una serie di altre scelte finalizzate a prepararsi ad affrontare l’evento della nascita del bambino affetto dalla malformazione, come ad esempio il ricorso per tempo ad una psicoterapia, o la tempestiva organizzazione della vita in modo compatibile alle future esigenze di cura del figlio.

Al riguardo, la prova, pur se incombente sulla parte attrice, lamentandosi la mancata informazione da parte del Medico, non può che essere di natura presuntiva quanto al grave pericolo per la salute psichica della donna che costituisce la condizione richiesta dalla legge per l’interruzione di gravidanza (Cass. 15386/2011).

La Corte d’Appello non ha applicato tali principi, nonostante i ricorrenti abbiano sollevato la questione relativa alla violazione del consenso informato e del diritto all’autodeterminazione.

Conclusivamente, la Cassazione, accoglie il terzo motivo di ricorso e cassa in relazione la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione.

Avv. Emanuela Foligno

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