Omessa diagnosi di meningoencefalite grave (Cassazione Civile, sez. III, dep. 25/10/2022, n.31574).

Omessa diagnosi di meningoencefalite grave è quanto dedotto dai genitori del bambino che convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, il Medico di pronto soccorso e l’Azienda Ospedaliera esponendo:

-che il 4 giugno 2008 avevano portato il bambino, di pochi mesi, che da alcuni giorni presentava un pianto continuo, al P.S. dell’Ospedale ove veniva dimesso dal Medico ipotizzando una coxalgia e prescrivendo la somministrazione di un antinfiammatorio;

-che il giorno seguente il minore fu riportato al P.S. (ove era nuovamente in servizio il medesimo Medico convenuto) e, a seguito di analisi del sangue, ne venne disposto il trasferimento nel reparto di pediatria, ove veniva intubato, essendo stata rilevata la presenza di pneumococco;

-che la successiva diagnosi fu di meningoencefalite grave, con presenza di lesioni focali multiple sia del tronco encefalico che a livello degli emisferi cerebrali;

-che la consulenza tecnica esperita in sede di ATP attestava l’imperizia, l’imprudenza e la negligenza del Medico di pronto soccorso;

-che successivamente veniva accertato che quest’ultimo, pur prestando servizio presso il pronto soccorso pediatrico, non era un Medico.

Di talchè gli attori chiedevano la condanna dei convenuti per la omessa diagnosi di meningoencefalite grave.

Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda condannando il Medico e l’ASST, in solido fra loro, al risarcimento del danno non patrimoniale in capo al minore (liquidato in Euro 1.219.355,00), nonché del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore di ciascuno dei genitori.

La sentenza veniva parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Milano con la pronuncia n. 1797/2019, depositata il 23 aprile 2019.

La Corte territoriale ha condiviso le valutazioni del Tribunale circa la sussistenza del nesso di causalità tra il danno riportato dal minore e la omessa diagnosi di meningoencefalite imputata al falso Medico e alla struttura, evidenziando come la CTU avesse accertato comportamenti sanitari imperiti, imprudenti e negligenti, tenuto conto delle condizioni del minore, delle linee guida vigenti all’epoca e della migliore pratica medica. Secondo i CTU non veniva correttamente inquadrato il caso clinico del bambino che veniva dimesso senza una corretta diagnosi e senza chiedere il parere di un Medico specialista, mentre una corretta e tempestiva diagnosi, formulata già il 4 giugno 2008, avrebbe consentito, con il 70% di probabilità, un’evoluzione favorevole della malattia del piccolo.

Ciò posto, la Corte milanese, considerata l’impossibilità di stabilire in modo oggettivo una durata presumibile della vita del bambino, e tenuto conto altresì del carattere permanente del danno, ha ritenuto che la modalità del risarcimento in forma di rendita vitalizia meglio rispondesse alle concrete esigenze del danneggiato, garantendogli per tutta l’effettiva durata della vita la percezione di quanto liquidato annualmente. Al fine di calcolare l’importo annuo della rendita, la Corte ha operato il calcolo inverso sulla base della formula utilizzata per determinare il valore delle rendite vitalizie di cui al D.P.R. n. 131 del 1986 art. 46, comma 2, lett. c) e ha disposto la costituzione di una rendita vitalizia a favore del bambino quantificata in Euro 1.283,53 mensili.

In definitiva, la Corte d’appello di Milano, per quanto qui di interesse, ha confermato la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni in favore del bambino e dei genitori, così come quantificato dal Tribunale, convertendo il risarcimento in forma capitale.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, la Compagnia assicuratrice.

La Compagnia lamenta che la Corte d’appello avrebbe reso una pronuncia extra petita, dal momento che nessuna parte aveva formulato domanda di costituzione di una polizza fideiussoria a prima richiesta in caso di condanna.

Con il secondo motivo lamenta che la Corte d’appello l’avrebbe erroneamente condannata a tenere indenne l’ASST in quanto nessuna copertura assicurativa poteva in concreto operare in relazione ad un’attività posta in essere da un suo dipendente in assenza del titolo e della qualifica di medico.

Il motivo è inammissibile nella parte in cui censura l’interpretazione del contratto fornita dalla Corte d’appello, asserendo che la garanzia sarebbe andata a coprire solo l’attività svolta dal personale dotato di qualifica medico-sanitaria.

L’interpretazione di un atto negoziale costituisce un accertamento in fatto riservato al Giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nella ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 e segg. c.c. o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione.

Nel caso di specie, la compagnia ricorrente non ha lamentato che vi sia stata, da parte della Corte d’appello, una violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, limitandosi a prospettare una diversa ed alternativa interpretazione dello stesso contratto.

Ed ancora secondo la ricorrente, la decisione d’appello sarebbe viziata da manifesta illogicità nella parte in cui ha ritenuto che le dimissioni del minore in data 4 giugno 2008 da parte del Medico convenuto costituissero il probabile antecedente causale della patologia di meningoencefalite.  In particolare, sarebbe contraddittoria la tesi dei CTU, fatta propria dai giudici del merito, secondo cui, se il 4 giugno 2008 non vi fosse stata omessa diagnosi di meningoencefalite, si sarebbe potuto impostare un’adeguata terapia farmacologica che avrebbe evitato gli importanti reliquati che oggi gravano sul paziente.

Secondo la CTU, è pacifico che l’infezione al momento del primo accesso al pronto soccorso, fosse già in atto da almeno 15 giorni, e pertanto, anche se la diagnosi fosse stata corretta fin da quella data, la terapia non avrebbe comunque potuto essere impostata in maniera precoce. Di conseguenza, il comportamento del medico, al momento del contatto con il paziente, non avrebbe più potuto avere alcuna rilevanza causale per prevenirne, modificarne o migliorarne la condizione patologica.

Il motivo è inammissibile.

Il motivo si traduce, in realtà, in una doglianza di merito rispetto all’accertamento della responsabilità del medico, incensurabile in Cassazione in quanto adeguatamente motivato dalla Corte facendo riferimento alle risultanze della CTU medico-legale pur dando atto delle critiche dei CT di parte, a cui i consulenti avevano offerto specifica risposta, confermando le proprie valutazioni.

Secondo i ricorrenti incidentali, genitori del bambino, la sentenza sarebbe contraddittoria in quanto, pur avendo rigettato la richiesta di riduzione dell’entità del risarcimento riconosciuto al figlio a causa della sua minore aspettativa di vita, ritenendola determinata proprio dalle colpevoli omissioni delle controparti, avrebbe poi in concreto consentito loro di giovarsi della propria condotta, applicando un criterio di liquidazione che, implicitamente, consentiva la predetta riduzione, tenuto conto della ridotta aspettativa di vita del minore. Inoltre, la Corte d’appello non avrebbe spiegato adeguatamente la ragione per cui la costituzione di una rendita di modesta entità mensile fosse maggiormente indicata a far fronte alle concrete esigenze del minore, il quale, trovandosi in stato vegetativo permanente, affetto da paralisi cerebrale, encefalopatia epilettica resistente a terapia, grave scoliosi neurologica evolutiva già sottoposta a due interventi nel 2014-2015, aveva necessità di un’assistenza specialistica continuativa.

Le censure mosse alla sentenza impugnata, nella sostanza, sono volte a censurare l’an e il quomodo della soluzione adottata dal Giudice di appello. Ad ogni modo, la doglianza con cui si lamenta la “contraddittorietà” della sentenza in relazione alla costituzione di una rendita in favore dell’avente diritto è infondata. E’ invece fondata la censura con la quale si prospetta un error in iudicando nella concreta determinazione della detta rendita.

L’art. 2057 c.c., infatti, rimette al prudente apprezzamento del Giudice la scelta della forma di liquidazione del danno permanente alla persona, perché capitale e rendita si equivalgono per l’ordinamento civilistico. Il Giudice è dunque libero di optare ex officio per lo strumento di cui all’art. 2057 c.c., purché determini la rendita in modo tecnicamente corretto.

Pertanto, nessuna contraddittorietà emerge dalla decisione con cui la Corte d’appello, da un lato, ha ritenuto corretta la quantificazione del danno compiuta dal primo Giudice, e dall’altro ha ritenuto di liquidare tale pregiudizio in forma di rendita.

Gli Ermellini sottolineano, al riguardo, che “L’universo del danno grave alla persona rappresenta (dovrebbe rappresentare) il terreno d’elezione per un risarcimento in forma di rendita – l’unico che consenta di considerare adeguatamente, sotto molteplici aspetti, tra cui quello dell’effettività della tutela e della giustizia della decisione – l’evoluzione diacronica della malattia (ovvero la sua guarigione, se possibile), così che l’antinomia tra l’astratta efficacia di tale strumento risarcitorio e la sua (mancata) applicazione in concreto appare segnata, in premessa, da una sorta di sostanziale quanto non giustificabile “diffidenza” nei suoi confronti.”

La decisione impugnata appare, comunque, erronea in diritto, anche se per una ragione diversa da quella invocata dal ricorrente. Ma tale circostanza non appare decisiva, ai fini dell’accoglimento del motivo, alla luce del principio ripetutamente affermato secondo il quale il Giudice di legittimità, “in virtù del principio jura novit curia, può ritenere fondato il ricorso anche per una ragione giuridica diversa da quella indicata dalla parte e individuata d’ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella sentenza impugnata”.

Osserva il Collegio che, riconosciuta al Giudice di merito la facoltà di liquidare il danno in forma di rendita (se del caso, come opzione risarcitoria privilegiata), incombe poi su quello stesso Giudice l’onere di assicurare che la rendita restituisca un valore finanziariamente equivalente al capitale da cui è stata ricavata, per l’intera durata della vita del beneficiario.

La Corte d’appello ha ritenuto di costituire la rendita in favore della vittima dividendo il capitale per il coefficiente di cui all’art. 46, lettera (c), D.P.R. n. 26.4.1986 n. 131: tale coefficiente è dettato dalla legge al fine di determinare la base imponibile dell’imposta di registro dovuta per gli atti di costituzione di rendite vitalizie, ed è stato periodicamente aggiornato con successivi decreti ministeriali.

Conclusivamente, la Corte rigetta il ricorso principale; accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, con assorbimento del terzo, ne rigetta il primo, cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e rinvia il procedimento ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano.

Avv. Emanuela Foligno

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