Funzione della buona fede in adempimento di obbligazioni pecuniarie, recesso e risoluzione

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Il recesso abusivo del contratto.

Cassazione 31.5.2010, n°13208: la funzione assolta dalla buona fede come criterio generale diffuso nell’ordinamento giuridico.

GIURISPRUDENZA:
Cassazione, sez. I 20.4.1994, n°3775;

Cassazione civ. sez. I 14.11.1997, n°11271:

Cassazione civ. sez.I, 21.5.1997, n°4538;

Corte di Appello di Roma, 18.1.2005, n°136;

Cassazione civ. sez.I, 134.2006, n° 8711;

Cassazione civ. sez. I, 7.3.2008, n°6186;

Corte di Giustizia, 25.10.2005, C-350/03.

 

L’intensità del controllo giudiziale sui poteri privati è una delle questioni ampiamente dibattute in dottrina e giurisprudenza che hanno approfondito la disamina della possibilità di sindacare l’esercizio del diritto potestativo, quale il diritto di recesso, alla stregua del parametro della buona fede oggettiva.

Secondo la relazione ministeriale al codice civile, va richiamata la considerazione dell’interesse del debitore non tralasciando il giusto riguardo all’interesse del creditore, ovvero un criterio di reciprocità che assume rilevanza costituzionale in quanto specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale evidenziati dall’art.2 Cost.

E’ compito del giudice riempire di contenuto la clausola generale di buona fede e poi modificare o integrare il programma contrattuale con quei necessari comportamenti tesi a soddisfare gli interessi del debitore e del creditore, salvaguardando, contemporaneamente l’utilità di ciascuno alla contrattazione.

Si pone attenzione, in tale ambito, per evitare che l’esercizio del diritto di recesso avvenga secondo modalità che finiscano, poi, per alterare la distribuzione dei rischi contrattuali concordati senza un sacrificio sproporzionato rispetto agli interessi di controparte.

La nozione unitaria di buona fede, comprende, pertanto, sia le relazioni di diritto-obbligo che quelle di potestà-soggezione in modo tale che l’obbligo di esercitare ogni diritto sia conforme agli scopi attribuiti dall’ordinamento giuridico.

In tal modo la bonam fidem diviene baluardo invalicabile al limite interno di ogni diritto, vietandone qualsiasi abuso. L’interprete dovrà considerare la buona fede attraverso l’emersione della causa concreta valutando se il diritto contestato sia stato esercitato nell’ottica della funzione effettiva riconosciutagli dalle parti. Verrà negata rilevanza giuridica a tutti gli atti che perseguano un fine diverso da quello che gli è proprio, dimostrandosi immeritevoli di tutela.

Il recesso individua il diritto di sciogliere il contratto mediante un atto unilaterale e recettizio. Le figure del recesso previste dall’ordinamento sono ad nutum e per giusta causa. Nel primo caso è rimesso all’autonoma decisione del titolare, ex art.1373 del cod. civ. e senza ulteriori limitazioni. Nel secondo è legato all’assistenza di una giusta causa a tutela dell’inadempimento della controparte in base al dettato dell’art. 1385 del cod. civ. L’abuso del diritto è intimamente collegato al recesso “ad un cenno”.

Contrariamente, giurisprudenza minoritaria afferma che il giudice non ha al possibilità di valutare la conformità e la buona fede dell’atto di esercizio del diritto di recesso in tronco, per eccessiva ingerenza nell’autonomia contrattuale, che finirebbe per intaccare “diritti fondamentali” di rilevanza costituzionale quali la libera iniziativa economica privata, ex art.41 Cost.

A tal maniera, però, si ha una deminutio di tutela in capo alla parte costretta a sopportare le conseguenze negative di un recesso esercitato nel rispetto delle regole formali di rilevanza giuridica. La bonam fidem deve invece costituire il filtro utilizzato dall’ordinamento che valuta il comportamento che ha dato esecuzione a quella clausola in modo da dequalificare il recesso da incondizionato a recesso sottoposto a limiti. Gli atti di esercizio di recesso saranno reputati illeciti, per contrarietà alla buona fede, tutte le volte che dinanzi al caso concreto alterino la distribuzione del carico dei rischi contrattuali su una o l’altra parte in modo anomalo ed esorbitante.

La differenza tra il recesso in tronco e per giusta causa si rileva in modo evidente nella diversa distribuzione dell’onere probatorio.

Nel secondo caso la prova spetta al recedente; quando è contrario a buona fede la prova della contrarietà incombe a chi lamenta l’inefficacia del recesso stesso. Se ne deduce ciò che fa la differenza è costituito dalla individuazione degli strumenti di tutela per equivalente o specifica a seconda dell’ipotesi.

Colui che risulta aver utilizzato l’istituto del recesso con abuso non potrà conservare il risultato conseguito né, a seconda del caso, conseguire il risultato voluto.

La giurisprudenza più recente, difatti, ha ritenuto immeritevole di tutela il recesso esercitato senza quel minimo di procedimentalizzazione richiesto tale da risultare sproporzionato e gravoso per la controparte. Sotto la lente dell’interprete, focalizzato al bilanciamento di interessi contrapposti, il recesso contra legem, pertanto, aprirà la stura ad esperire azioni risarcitorie. L’utilizzo per fini difformi dal recesso integra l’inadempimento all’obbligo di buona fede ex art. 1375 cod. civ. qualificandosi così la condotta come illecita con conseguenze risarcitorie per l’autore.

Anche nell’ambito dei contratti con i consumatori, con le particolari attenzioni della legislazione comunitaria al contraente debole, il recesso diviene l’ago della bilancia per il riequilibrio delle parti, in caso di contrattazioni caratterizzate da asimmetria informativa nella fase di formazione del consenso.

La funzione assolta dalla buona fede, come criterio generale che pervade l’ordinamento giuridico si ha, oltre che nel recesso, anche nella risoluzione del contratto. A tal proposito la Cassazione ha evidenziato la slealtà della parte che invoca la risoluzione per inadempimento, pur avendo altri strumenti giuridici per tutelare i propri interessi e si ripercuote sulla valutazione della gravità dell’inadempimento stesso, costituendone l’interfaccia.

Il giudizio di pretestuosità della condotta attorea, come afferma la Suprema Corte il 31.5.2010, con la sentenza n°13208, che ha invocato la risoluzione, va considerata con un riconoscimento della scarsa importanza dell’inadempimento, avuto riguardo all’interesse dell’altra, ovvero ad un interesse che poteva essere preservato senza ricorrere al mezzo estremo dell’ablazione del vincolo.

Pertanto, la giurisprudenza attenta della Cassazione ha statuito, ancora una volta, come le posizioni soggettive di sofferenza vadano arginate nel momento in cui ci siano comportamenti volti ad un esercizio disfunzionale del diritto.

In conclusione l’evoluzione concettuale della buona fede a criterio generale di valutazione della validità del contratto attribuisce al giudice amplissimi poteri di valutazione delle parti dilatando le ipotesi di nullità, ed al contempo ha, però, introdotto incertezza nei contratti. La buona fede, ad oggi, rappresenta la nuova veste contrattuale e regola di responsabilità di ogni singolo rapporto contrattuale sottoponibile ad un eventuale riequilibrio delle operazioni contrattuali bilanciandone gli interessi ai rimedi caducatori.

Sembra che il regolamento negoziale per realizzare l’obiettivo dell’equilibrio contrattuale debba, sempre più, perdere la sua matrice individualistica per arricchirsi di un plusvalore di carattere pubblicistico impostogli ab externo.

Il conflitto fisiologico tra autonomia privata ed ordinamento giuridico diventa strumento di trasformazione giuridica in senso pluralistico ed il fattore assiologico dei diritti fondamentali dell’individuo, in quanto strumenti di promozione sociale, consentono di superare la concezione del conflitto quale ostacolo, riconducendolo alla condizione di opportunità cioè presupposto dell’intervento statuale.

Più chiaramente, l’autonomia privata secondo l’impostazione della migliore dottrina ( M. Barcellona, “L’ nella teoria del diritto privato: il caso italiano (ma non solo), in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 1997), diventa sempre più spesso mezzo preordinato anche alla realizzazione dell’interesse pubblico.

Oggi, si guarda sempre più al contratto secondo una concezione rinnovata che concepisce il contratto come una delle fonti dell’ordinamento.

Pertanto, la clausola generale di bonam f idem, nell’ottica dei principi di solidarietà, uguaglianza sostanziale e proporzionalità, da mezzo di accertamento e valutazione della condotta contrattuale diventa dispositivo di correzione e controllo del regolamento contrattuale.

La buona fede, quale strumento di correzione delle disfunzioni connesse dall’uso unilaterale e distorto a vantaggio del più forte tra i contraenti, secondo la dottrina italiana ( C.M. Bianca), può realizzare quell’operazione di politica del diritto, per cui possono esprimersi le potenzialità correttive-integrative della buona fede nella formula della c.d. buona fede in executivis, che impone la salvaguardia delle utilità dell’una e dell’altra parte.

Dott. Vincenzo Caruso

 

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