Respinto il ricorso di una donna contro il rigetto della domanda per la liquidazione della rendita ai superstiti per insussistenza del nesso causale tra infermità di natura professionale e decesso

Le conseguenze morbose di una infermità di natura professionale assumono il rilievo di concausa della morte del lavoratore cagionata da malattia sopravvenuta e indipendente, soltanto se, oltre ad aver prodotto la debilitazione dell’organismo, di per sé inidonea ad influire sul decesso con efficacia causale determinante, abbiano anche inciso sui caratteri della malattia sopravvenuta, accelerandone il decorso verso l’esito letale. Due sono le condizioni richieste perché la precedente patologia (professionale) priva di carica letale, possa considerarsi concausa nella determinazione della morte avvenuta ma dalla prima anticipata, richiedendosi: che l’organismo sia rimasto compromesso nella sua funzionalità e che tale compromissione abbia agevolato, nel momento di causazione dell’esito finale, la naturale carica aggressiva letale della nuova infermità e l’infermità preesistente abbia negativamente inciso sulla gravità della seconda rendendo inutile la pratica terapeutica diretta a neutralizzarla o anche solo al mantenimento nel tempo della vita del soggetto.

Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza n. 22870/2021 pronunciandosi sul ricorso di una donna che si era vista rigettare, in sede di merito, la domanda per la liquidazione della rendita ai superstiti in qualità di coniuge del defunto marito, titolare di rendita per malattia professionale, per insussistenza del nesso causale tra malattia professionale e decesso.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte la ricorrente lamentava l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, sia per l’acritica adesione della Corte di merito alle conclusioni rassegnate dall’ausiliare, omettendo qualsivoglia valutazione delle conclusioni del consulente di parte e del certificato necroscopico dal quale evincere il ruolo di concausa dell’infermità professionale nella morte del lavoratore, cagionata da malattia sopravvenuta e indipendente dalla tecnopatia, accelerandone il decorso verso l’esito letale, sia per avere trascurato l’incidenza dirimente dell’affezione cardiocircolatoria, rilevata dall’ausiliare officiato in giudizio che, nell’escludere il nesso causale tra patologia polmonare e intervenuto decesso, aveva rimarcato, nel determinismo dell’evento mortale, la natura professionale della patologia cardiocircolatoria associata a quella polmonare.

La Cassazione, nel rigettare le doglianze proposte, evidenziando come nel caso in esame, la malattia professionale non fosse direttamente riconducibile alla patologia morbosa (malattia vascolare che ha colpito il distretto cerebrale) ai sensi del T.U. n. 1124 del 1965, art. 145 e dalla consulenza tecnica d’ufficio richiamata nella sentenza della Corte territoriale si evinceva che la silicosi non aveva avuto ruolo concausale neanche minimo, né influito sulla drammatica evoluzione della malattia vascolare che aveva colpito il distretto cerebrale, aggravandone gli effetti e il decorso, tenuto conto dello stadio non avanzato della silicosi e, al contrario, dello stadio avanzato della malattia aterosclerotica e dell’evoluzione delle condizioni cerebrali con perdita delle funzioni cerebrali superiori e insorgenza del coma irreversibile.

La redazione giuridica

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