E’ un tema che “scotta” da più anni e che vede coinvolte spesso anche strutture di eccellenza. Lo spunto che fa nascere questo articolo è la lettura della sentenza del Tribunale di A. (che si allega in pdf) e che dà ragione al paziente risarcendolo in quanto, in estrema sintesi, la struttura non ha provato che l’infezione (e quindi gli esiti) sia derivata da evento imprevisto ed imprevedibile.

Facciamo una breve premessa che deve rappresentare il criterio generale per le strutture per dare prova di un avvenuto corretto adempimento:

1) La struttura dovrà dimostrare l’avvenuta adozione di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis onde evitare l’insorgenza di patologie infettive batteriche;

2) La struttura dovrà dimostrare l’adeguato trattamento terapeutico messo in atto dai propri sanitari nella fase pre-peri-post operatoria (profilassi) e in quella post diagnosi infettiva.

Facendo riferimento al caso relativo alla sentenza che si allega, il Giudice condanna la struttura per non aver rispettato gli obblighi di fornire al paziente le attrezzature idonee ad evitare l’insorgenza della complicanza infettiva.

Di tale opinione è il Giudice di prime cure malgrado che la struttura abbia dimostrato:

a) Ottimale profilassi antibiotica e cura post infezione;

b) Prova della presenza di organismo di gestione e controllo delle infezione ospedaliere con primario istituto di igiene con compiti di monitoraggio ambientale delle aree di alto rischio infettivo (sale operatorie, ma non tutte, e terapie intensive).

Insomma, secondo il Giudice la struttura non ha provato:

– Una eventuale preesistenza della infezione;
– Una efficace ed effettiva asepsi della strumentazione chirurgica adoperata;
– Una efficace asepsi dei diversi ambienti ospedalieri per il periodo in cui è stato ricoverato il paziente.

Tra gli altri fatti, risulta davvero importante quanto riferito in relazione dal CTU il quale affermava che si trattava di una infezione nosocomiale ma che non era stato possibile determinare il momento e lo specifico ambiente nell’ambito ospedaliero nel quale l’infezione fosse insorta.

Insomma, per il Giudice, una volta provata la natura nosocomiale dell’infezione e il nesso tra lesioni lamentate e infezione stessa, la struttura per dare la prova “dell’innocenza” non potrà limitarsi a fornire una prova generica del tutto decontestualizzata rispetto alla fattispecie oggetto del contenzioso: le verifiche e prove a campione circa la comprovata prassi di disinfezione e sterilizzazione adottata non sono sufficienti alla struttura per liberarla dalla presunzione di responsabilità ex art. 1218 c.c.

Esistono comunque svariate sentenze di merito in cui certe prove documentali sono state ritenute “prove liberatorie” (soprattutto presso il tribunale di Milano) *[1]:

1) Dati relativi alla cadenza delle operazioni di pulizia, di sanificazione e di sterilizzazione delle sale operatorie, dei macchinari e del materiale, tra un intervento e l’altro, a fine giornata, mensilmente, comprendendo anche le bocchette di areazione;

2) La rintracciabilità e la verifica delle sterilizzazioni del materiale chirurgico nelle autoclavi;

3) La specifica formazione e sensibilizzazione del personale alla tematica della prevenzione delle infezioni;

4) Le verifiche ispettive ed i controlli attuati, con cadenza semestrale, da parte della direzione sanitaria e del servizio di qualità all’uopo istituito, con riguardo al rispetto delle procedure in uso presso la struttura;

5) I dati contenuti nei report relativi alla incidenza di una determinata infezione presso una specifica unità operativa della struttura convenuta.

6) La specifica prova (documentale e testimoniale) in ordine alle azioni di prevenzioni adottate dalla struttura, in alcuni casi, che ha ricollegato l’insorgenza della patologia infettiva ad altri fattori, anche soggettivi (vedi pazienti immunodepressi/defedati)

In verità quanto affermato dal Giudice di A. ha giustificati fondamenti logici e giuridici in quanto attengono all’onere della prova e nelle infezioni nosocomiali una volta dimostrato che la infezione non era preesistente come si fa a dimostrare che non è nosocomiale e che la salubrità degli ambienti fosse adeguata per non “indurre” l’infezione?

Inoltre, come affermato dal CTU, non potendosi accertare l’eziologia della infezione né tantomeno l’ambiente di provenienza dell’ospedale, come si può far ricadere la responsabilità sulla parte debole, il paziente, che si ricovera per migliorare e non per peggiorare il proprio status clinico?

Il concetto di incomprimibilità del rischio infettivo cozza con l’esistenza del fatto illecito, ossia che la causa dell’infezione è dell’ospitante (struttura e i suoi sanitari medici e infermieri) e può derivare anche dalla semplice scarsa pulizia delle mani di un infermiere che medica la ferita (pulendola).

Dunque quando si può imputare al paziente la causa dell’infezione?

Certo non quando è dimostrato quanto su specificato bene dai punti da 1 a 5, ma solo quando un soggetto entra già defedato in ospedale e che quindi favorisce “efficientemente” l’infezione.

Non si ravvede una ulteriore prova che possa escludere con certezza il nesso di causa fa infezione e presunta scarsa salubrità del nosocomio anche nei mds/protesi che vengono impiantate nell’organismo del paziente.

Perché si può affermare ciò?

Perché anche quando viene provata la regolare sanificazione delle sale operatorie, dei macchinari e del materiale tra un intervento e l’altro, a fine giornata e mensilmente, chi potrà dire mai che tale sanificazione sia stata adeguata tanto da giustificare la presenza di una concausa esterna infettante (che ricordo va provata documentalmente) specialmente quando era invece dimostrabile che la infezione non era preesistente e il paziente non era un immunodepresso grave?

Penso che questo sia un adeguato spunto di riflessione che sottopongo ai colleghi medici legali e ai giuristi che ci seguono quotidianamente su queste pagine.

 

Dr. Carmelo Galipò
(Pres. Accademia della Medicina Legale)

SCARICA QUI LA SENTENZA

*[1] RIDARE.IT 25.05.16 (Giuffrè Editore) – Avv. Cristina Lombardo

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