Interventi inefficaci e violazione del diritto di autodeterminazione

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Il paziente si era sottoposto, nel 2008, a un intervento di ernioplastica inguinale destra al fine di correggere un’ernia inguinale, causa di dolori e della comparsa di una tumefazione.

Tuttavia, l’intervento chirurgico si rivelava inefficace, rendendosi necessario un nuovo intervento di revisione plastica inguinale, con il medesimo chirurgo. Anche tale secondo intervento non si era dimostrato risolutivo. Quindi, dopo essersi sottoposto a una terapia d’infiltrazioni, il paziente ricorreva ad un nuovo intervento chirurgico di revisione, il terzo, effettuato nel 2014 presso altra clinica.

A seguito di tale intervento veniva diagnosticata una azoospermia che il paziente riconduce alla responsabilità medica del chirurgo (esecutore dei primi 2 interventi), per errate manovre chirurgiche.

Quindi chiama a giudizio l’Azienda Ospedaliera Universitaria e il chirurgo lamentando anche un inadeguato consenso informato e incompletezza delle cartelle cliniche.

Il Tribunale rigettava la domanda per mancanza di prova del nesso causale fra l’operato del sanitario e il danno all’integrità fisica.

La Corte di appello disattendeva il gravame osservando, in particolare:

  • a) quanto alla dedotta incongruità delle cartelle cliniche, non vi era stata alcuna confusione tra le cartelle cliniche del primo intervento (2008) e del secondo intervento (2010).
  • b) quanto alla vicenda clinica, le risultanze della CTU erano state conclusivamente nel senso che “l’insorgenza di dolore cronico post-operatorio era conseguente all’intervento di ernioplastica inguinale destra secondo Lichtenstein eseguito in data 05.11.2008“, ma che “non fosse ascrivibile a condotta censurabile dei Sanitari“, laddove la letteratura scientifica riportava, infatti, “un’incidenza di dolore cronico post-operatorio fino al 12% dei pazienti operati e identificava più cause responsabili, alcune dipendenti dalla reazione individuale alla plastica, prevedibili ma non prevenibili. In particolare, in entrambi gli interventi effettuati successivamente alla comparsa del dolore cronico, veniva rilevata e descritta nei verbali operatori la presenza di “abbondanti residui cicatriziali e filamenti nervosi” e di “tenace ganga connettivale fibrosa (ill) ant. Copre totalmente la rete precedentemente posizionata … ganga connettivale che ingloba il nervo ilioipogastrico …” ad indicare l’importante reazione cicatriziale che aveva avuto luogo successivamente all’intervento“. Inoltre il CTU aveva be evidenziato anche la corretta indicazione terapeutica all’esecuzione del secondo intervento, a fronte di “dolore in capo al paziente che era divenuto refrattario alla terapia farmacologica e della possibilità che un intervento di rimozione del meshoma o riparazione di ricorrenza avrebbe potuto lenire la sintomatologial’origine del dolore cronico inguinale post operatorio in correlazione con l’intervento chirurgico costituisce una complicanza prevedibile e non prevenibile indipendente dalla tecnica chirurgica adottata…”.
  • c) quanto al lamentato difetto di consenso informato, escluso un danno in re ipsa non risultava provato che se il paziente avesse acquisito l’informazione avrebbe rifiutato i trattamenti terapeutici stessi. Anzi nel giudizio di primo grado è risultata, pur presuntivamente, la prova contraria desunta dalla stessa prospettazione attorea (il dolore inguinale descritto come particolarmente intenso dopo qualsiasi piccolo sforzo necessitante di riposo assoluto di qualche giorno; di tipo urente dopo i rapporti sessuali, algie che persuasero il Ma.Lu. al compimento degli interventi) e soprattutto dalla circostanza … che per eliminare tale importante dolore inguinale progressivamente ingravescente, il paziente si sottoponeva nel 2014 al terzo intervento.

Il ricorso in Cassazione

Il paziente, per quanto qui di interesse, si rivolge alla Suprema Corte e deduce che la Corte di appello avrebbe errato confondendo il pregiudizio consistente nell’aver subito un intervento che avrebbe rifiutato qualora informato, e quello conseguente alla lesione della libera autodeterminazione.

La Cassazione rigetta (Cassazione Civile, sez. III, 06/05/2024, n.12244).

Il diritto all’autodeterminazione

Sul punto lamentato, ai fini della risarcibilità del danno inferto sia alla salute, sia al diritto all’autodeterminazione la Suprema Corte ricorda le distinte ipotesi:

  1. Se ricorrono: a) il consenso presunto, b) il danno iatrogeno, c) la condotta inadempiente o colposa del medico, è risarcibile il solo danno alla salute del paziente, nella sua duplice componente relazionale e morale, conseguente alla non corretta esecuzione, inadempiente o colposa, della prestazione sanitaria.
  2. Se ricorrono: a) il dissenso presunto, b) il danno iatrogeno, c) la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria, è risarcibile sia, per intero, il danno, biologico e morale, da lesione del diritto alla salute, sia il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, cioè le conseguenze dannose, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, allegate e provate (anche per presunzioni).
  3. Se ricorrono sia il dissenso presunto, sia il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria è risarcibile la sola violazione del diritto all’autodeterminazione, mentre la lesione della salute dev’essere valutata in relazione alla eventuale situazione “differenziale” tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento e il preesistente stato patologico invalidante del soggetto.
  4. Se ricorre il consenso presunto e non vi è alcun danno derivante dall’intervento, non è dovuto alcun risarcimento.
  5. Se ricorrono il consenso presunto e il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria (cioè, l’intervento è stato correttamente eseguito), il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all’autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi, anche per presunzioni, che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente.

Il consenso informato

Ciò posto, la Corte di Appello ha correttamente escluso che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento qualora debitamente informato, e ha escluso che con la domanda da violazione del diritto al consenso informato siano state fatte allegazioni di “pregiudizi diversi” da quelli correlabili alla salute.

Riguardo al caso clinico, il doppio intervento ha seguìto le linee guida relative alla patologia, risultando correttamente proposto ed eseguito e la persistenza del dolore, dopo il primo e secondo intervento, rientrava negli esiti percentuali possibili.

Avv. Emanuela Foligno

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