È fondamentale creare una rete supportiva che sostenga la mamma e l’intero nucleo familiare nell’affrontare i compiti evolutivi di una nuova e sconosciuta fase del proprio ciclo vitale

La gravidanza, il parto e la maternità non sono sempre eventi semplici e naturali per la donna, il mito dell’istinto materno è, in verità, un falso mito. Già nel 1959 la Bibring definiva la gravidanza come processo di ristrutturazione della propria immagine, all’interno del quale la mamma ripercorre e rielabora i conflitti sperimentati nelle fasi precedenti dello sviluppo, in particolar modo riguardo le prime relazioni e identificazioni con la propria madre. Il compito è quello di integrare i Modelli Operativi Interni di sé – rappresentazioni mentali dinamiche inconsce, costituitesi a partire dalle esperienze relazionali precoci con le figure di attaccamento – con le rappresentazioni mentali in gravidanza che la donna fa di sé, della gravidanza, del bambino e della maternità. Come concettualizzato dalla stessa autrice, infatti, la gravidanza viene a configurarsi come una vera e propria crisi maturativa insita di una doppia valenza: se da un lato è tesa, in senso evolutivo, alla risoluzione di conflitti precedenti e all’acquisizione di un livello di integrazione più maturo, dall’altro la profonda destrutturazione e riorganizzazione della propria identità possono essere vissuti come una minaccia alla propria integrità.
Diffusa, in letteratura, è l’esigenza di prendere in considerazione rappresentazioni reali e fantasmatiche della donna in gravidanza con la propria madre; l’identificazione con una buona immagine materna, infatti, denota una altrettanto buona relazione infantile con la madre e la capacità di riconoscerla come tale (Deutsch, 1945; Benedek, 1959; Bibring, 1961; Pines, 1982; Breen, 1992). Esperienze precoci con una figura accudente sufficientemente buona permettono alla donna in gravidanza di rappresentarsi come mamma efficace e capace, di identificarsi con la parte di sé figlia e di giungere, quindi, ad un livello di integrazione più maturo; un attaccamento infantile insicuro, al contrario, si configura come fattore di rischio per vissuti dolorosi in gravidanza e, successivamente, durante la maternità (Pines; 1982).
Studi successivi alla teoria dell’attaccamento hanno portato i ricercatori a considerare i genitori come possessori di un sistema di attaccamento organizzato rispetto una determinata configurazione e a formulare l’ipotesi della “trasmissione generazionale dell’attaccamento”, cioè l’ipotesi che la qualità delle cure ricevute nell’infanzia si riflette sulla capacità di offrire cure adeguate al proprio bambino e sulla capacità di essere genitori sensibili e responsivi. Il processo della prima gravidanza è, dunque, profondamente connesso con la storia e le identificazioni infantili e adolescenziali della donna, che la guidano nella propria fantasia nel sogno del bambino atteso, secondo una continuità/discontinuità dalla propria esperienza (Palacio Espasa, 1991; Ammaniti 1992); è un momento nel quale mondo reale e fantasmatico si compenetrano fino a causare, in qualche caso, più o meno severi scompensi dell’esame di realtà.
Nei giorni che precedono il parto, momenti ritenuti particolarmente critici, sono presenti ansie di morte – come se, per lo meno ad un livello rappresentazionale, la nascita di una persona potesse rappresentare la morte di un’altra – paure di distruzione del corpo e/o del bambino; l’esperienza del parto, poi, se da un lato potrebbe confermare l’integrità e la fertilità del proprio corpo, dall’altro potrebbe anche confermare fantasie di fallimento, di inadeguatezze e di meritata punizione, già presenti in gravidanza. Inevitabili sono le ansie di perdita, la Breen (1992) ne individua 3 tipi:

  • Perdita della gravidanza, che aveva portato con sé pienezza e benessere, occasione di realizzazione dei desideri infantili nei confronti dei genitori e, in riferimento a ciò, perdita di una parte di Sé.
  • Perdita del bambino interno e dell’unione simbiotica prenatale.
  • Perdita del bambino fantasmatico in favore del bambino reale, in ogni caso diverso da quello immaginato; a questa predita è spesso legata la quella del Sé fantasmatico della donna, attraverso la constatazione di non essere la madre ideale immaginata.

La maternità comporta l’adattamento ad un ruolo estremamente complesso e sconosciuto, che va appresso progressivamente e che, inevitabilmente, comporta quote di stress molto elevate; nel post partum, circa l’85% delle donne manifesta un qualche disturbo dell’umore, nella maggior parte dei casi con sintomi lievi, si risolve in breve periodo e spontaneamente; circa il 15/20% sviluppa, invece, sintomi più significativi.
Le situazioni emotive registrate in letteratura sono prevalentemente:

  • Baby Blues: condizione di estrema stanchezza fisica e stress legati sia alle fatiche del parto, sia al repentino cambiamento ormonale; il tono dell’umore è altalenante con improvvise crisi di pianto immotivate, possono presentarsi difficoltà nella concentrazione, disturbi nel ritmo sonno-veglia, disturbi alimentari. La condizione regredisce nell’arco di 7–10 giorni, in assenza di successive conseguenze per la madre o per il bambino. Solo una minima percentuale può evolvere in una conclamata Depressione Post Partum.
  • Depressione Post Partum (DPP): secondo i dati ISTAT del 2016, nella società occidentale, circa il 10-15% delle donne che partoriscono soffre di Depressione Post Partum; i sintomi possono mantenersi per circa 6-7 mesi inalterati in assenza di un intervento appropriato; l’intensità della sintomatologia può variare, da un disagio nel gestire le relazioni ad una profonda difficoltà nell’affrontare gli eventi di vita, legati o meno alla maternità. L’impatto sul bambino persiste oltre l’infanzia, configurandosi come fattore di rischio per bassi punteggi di QI a 11 anni, iperattività e disturbi dell’attenzione, rallentamento nell’acquisizione del linguaggio; difficoltà emotive, sociali e rischi psicopatologici.
  • Psicosi Puerperale: grave forma di psicosi, con un’incidenza stimata intorno all’ 0.2%. I sintomi, allucinazioni visive e uditive e stato delirante, compaiono nell’arco di 15/20 giorni in tutta la loro gravità. Necessari l’intervento di uno psichiatra e una cura farmacologica.

È fondamentale creare una rete supportiva che sostenga la mamma e l’intero nucleo familiare nell’affrontare i compiti evolutivi di una nuova e sconosciuta fase del proprio ciclo vitale; si stima che le donne con bassa autostima hanno il 39% di probabilità in più di incorrere in una DPP rispetto a donne con alta autostima. Si sottolinea, perciò, l’importanza di intervento nel contesto delle relazioni interpersonali, al fine di incrementare autoefficacia e agentività, la sensazione di perdita di controllo su emozioni, pensieri e comportamento, infatti, è, secondo Beck, il nucleo centrale alla base della DPP (Beck, 1998, 2001, 2002). Il disturbo è notevolmente sottostimato, nel 50% dei casi circa, infatti, le donne che ne soffrono tendono a nascondere il proprio disagio, anche a causa della tendenza comune a considerare gli eventi gravidanza e parto con connotazioni esclusivamente positive.
ESSERE DONNA, OLTRE CHE MADRE, UN BAMBINO STA BENE SE LA PROPRIA MAMMA STA BENE. Come sottolineato da Bowlby nei suoi studi sull’attaccamento, il piccolo ha necessità di fare esperienza di una madre che sorrida, comunichi, accarezzi e soprattutto sia in grado di trasmettere serenità al proprio bambino.
Il processo di accettazione della DPP è tutt’altro che semplice, per questo motivo è importante rivolgersi ad uno specialista; numerose evidenze empiriche evidenziano l’importanza di una terapia e, ove necessario, di un trattamento farmacologico.

Dott.ssa Giusy Ferlisi

Psicologa Clinica e Giuridica

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